Ho
visto il Signore
Volere
o no, siamo tutti, quanti siamo uomini sulla terra, inquieti appassionati e non
ma sazi cercatori della faccia di Dio. Al fondo di ogni fede, anche la più
ferma e compiuta è facile trovare l'audace impazienza e la pretesa febbrile
dell'Innominato. "Dio, Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi!
".
Le
pagine vaste e solenni della Bibbia sono a ogni momento solcate dalla luce e dal
fremito di queste alte e squillanti invocazioni. (Nonostante l'antico e chiaro
avvertimento di Dio: "Nessuno potrà vedere la mia faccia e vivere"). Implorano:
"Mostraci o Signore il tuo volto". Propongono ostinatamente: "Io
cercherò sempre la tua faccia, o Signore". Comandano ad ogni uomo:
"Cercate sempre il Signore: cercate sempre il suo volto". Sospirano
accoratamente "quando verrò e vedrò la tua faccia o Signore?". L'incarnazione
rispose praticamente a questa urgente e umanissima esigenza di visibilità
e concretezza. Ma Gesù rimase troppo poco in mezzo a noi e sulle vie di
questo finito e abituale mondo per riuscire a saziare la nostra fame del suo adorabile
volto e per spegnere la sete inquietante dei suoi occhi caldi e parlanti, dai
quali la divinità si affacciava sul mondo.
Anch'io
ho sempre cercato le vestigia del Cristo sulla terra, con avida, insistente speranza.
E mi era parso vedere balenare la luce del suo sguardo negli occhi casti e ridenti
dei bimbi - lembi di cielo mattutino e ventoso di primavera - trasparire opaca,
come dietro un velo di alabastro, nel pallido e stanco sorriso dei vecchi, illuminato
già dalla pace di remote e dolci regioni. Avevo cercato di cogliere
l'accento della sua voce nel discorso dolente e uguale dei poveri e degli afflitti
e mi era sembrato più volte che la sua ombra leggera mi avesse sfiorato
nel crepuscolo fatale dei morenti. Quegli occhi ansiosi di luce, quel viso solcato
dal dolore, quell'affanno pesante del respiro erano cose tanto "sue"
Ma
quelli erano soltanto aspetti diversi e lontani del tuo volto o Signore né
mi riusciva di comporli a vita e unità permanente. Bisognava forse che
suonasse l'ora grande della guerra. L'ora della tua agonia più acuta, o
Gesù. L'ora della tua irresistibile manifestazione al mondo. Secondo quanto
avevi detto agli ebrei quando ti domandarono il segnale d'inizio del tuo regno.
"Quando sarò sollevato da terra, attirerò tutto a me stesso":
e intendevi le altezze cruente della croce.
Ma,
in una dura giornata di guerra, io credo fermamente di averti intravisto o Signore. Era
un ferito grave e già presso a morire. Quando gli tolsero adagio, devotamente,
la giubba lacera e sporca apparve la veste atroce e gioconda del sangue che, come
un velo liquido e vivo, gli fasciava e rendeva brillanti le membra vigorose e
straziate. Senza parlare mi guardò. I suoi occhi erano colmi di dolore
e di pietà, di volontà decisa e di dolcezza infantile. Al fondo
vi tremava, attenuandosi, la luce di visioni beate e lontane. Come di bimbo che
si addormenta poco a poco. Non altrimenti dovette guardare Gesù dall'altro
della croce. Quel volto chiaro e virile di alpino, sotto la cornice scura dei
capelli scomposti e con l'ornamento così conveniente della barba incolta,
diceva un dolore così vergine e forte, una offerta cosciente e pudica,
una dignità così umile e regale , una domanda tanto discreta di
compassione e di aiuto che ne provai improvviso il brivido gaudioso e lancinante
della Veronica quando vide prodigiosamente fiorire il volto di Cristo sul suo
lino bianco e spiegato. Da quel giorno la memoria esatta dell'irrevocabile
incontro mi guidò d'istinto a scoprire i segni caratteristici del Cristo
sotto la maschera essenziale e profonda di ogni uomo percosso e denudato dal dolore.
Nel gregge cupo e macilento dei prigionieri di guerra, dallo sguardo vuoto e fuggitivo
come di belva in cattura (quanta nuda umanità e quanto Cristo in tanta
varietà di espressioni di età e di condizioni!) sul volto sacro
dei miei morti e dei miei feriti. Bastava che l'ala del dolore li sfiorasse e
tosto le linee nude e forti di quelle facce popolane, la espressione di quegli
occhi ordinariamente semplici e ignari si componevano armoniosamente, come per
una lenta dissolvenza, a quella assomiglianza arcana. La maschera del dolore
si intona subito al volto di questi uomini silenziosi e buoni della montagna;
si direbbe loro sommamente congeniale e come appartenente ad una loro vita profonda
ed occulta, sempre pronta ad affiorare non appena il dolore abbia cancellato le
labili parvenze della vita di superficie. Sul volto dei mondani, dei ricchi e
dei potenti il dolore è sempre improvviso, stonato e astruso. Non riesce
mai a sommergere la maschera clamorosa della vita facile e di convenzione, senza
lasciare residui stridenti. In ogni caso è sempre proclamato a voce troppo
alta e pretenziosa di compassione. Spesso direi che ha perfino un lontano, sebbene
involontario, sapor teatrale. Questa gente solida dell'alpe il sacrificio l'ha
nel sangue come un fatto assolutamente normale, come una legge ordinaria di vita.
Fino dai primi anni, se ne è nutrita come di un cibo sapido e quotidiano.
Le loro mamme, poverette, li han tirati su stentatamente, a forza di pan duro
e di Rosari. L'ora del dolore, per questi soldati di razza, non è mai un'ora
di eccezione. L'accettano e la vivono quasi inconsapevolmente, con rozza semplicità
e candore stupendo. Laddove l'uomo coltivato, per quell'istinto di recitazione
che gli viene dalla vita e dall'educazione moderna, le sue lacrime ama tenerle
davanti agli occhi dello spirito, per esaminarle e rigustarne l'acre sapore, ama
contarle ad una ad una davanti agli occhi distratti del prossimo, come per uno
spettacolo. (Chi
ha parlato di un "pianto allo specchio" a proposito dell'anima moderna?).
È il confronto tra questi due modi di essere è quanto mai dissonante. Come
compresi io stesso vivamente un giorno. Miravo il piccolo quadro dell'Addolorata
sopra la mia brandina da campo, unico ornamento della mia tenda militare. Per
un gioco del sole, che cadendo radeva la piana desolata, scorgevo il mio volto
riflesso, sovrapposto e come contenuto in quello della Vergine. Anch'io ero stanco
e la lunga marcia della giornata aveva segnato sul mio volto qualche ruga polverosa
di più, oltre quelle che gli anni vi vanno tracciando sempre più
fitte e oscure. Ma quale differenza tra la mia pena sfatta e teatrale e quella
di Maria silenziosa, pia, dolce e dignitosa! Mi staccai di colpo. Come se quella
vicinanza avesse sapore di contaminazione. Don Carlo Gnocchi Da
"Penna Nera delle Grigne", 140-141, aprile-maggio 1966 Torna
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