Gli
sciatori della morte Da soli contro i carri armati
russi Quella del "Battaglione
Cervino" è la storia più incredibile e commovente dell'ultima
guerra mondiale Nessuno
potrà mai raccontare tutta la storia del "Battaglione Cervino",
due volte formato e due volte distrutto nell'ultima guerra. L'ottanta per cento
di questi alpini è sottoterra in Albania e in Russia: e ognuno custodisce
un pezzo di storia che non ha fatto in tempo a racontare e che non ha testimoni
perché gran parte degli alpini morirono da soli.
Questo
reparto oggi non esiste più. Il suo nome è diventato una leggenda
di cui parlano i vecchi marescialli nelle caserme: erano tutti campioni di sci
e di roccia, dal primo all'ultimo, compresi il medico e il cappellano; erano volontari
e tutti scapoli, condizione prima per essere accettati; e ciascun alpino, raccontano
i vecchi marescialli con gran stupore, aveva due paia di scarpe Vibram per sé. Racconteremo
ora la storia del battaglione "Cervino", ma avvertiamo che non è
tutta qui.
Nel 1940 c'era ad Aosta - e c'è tuttora -
l'università degli alpini, la "Scuola centrale militare di alpinismo"
ammirata da tutti gli Stati Maggiori del mondo, dalla quale uscivano i migliori
combattenti di montagna. La scuola aveva messo in linea, per il fronte occidentale,
un meraviglioso battaglione, il "Duca degli Abruzzi", che poi fu sciolto
proprio il giorno in cui si attaccò la Grecia: 28 ottobre 1940. Dopo
l'ordine di scioglimento, ecco, sotto Natale, il controordine: costituire un battaglione
come quello di prima, tutto di soldati d'eccezione, tutto di scapoli, e mandarlo
al più presto in Albania. Il maggiore Gustavo Zanelli, comandante del reparto,
attaccò un cartello alla porta dell'ufficio: "Battaglione Alpino Sciatori
Monte Cervino" e per quel giorno il reparto ebbe in forza tre uomini: il
comandante, l'aiutante maggiore tenente Astorri e il tenente Scagno.
Il
21 gennaio 1941 il "Cervino" aveva già i primi morti in Albania:
alpini uccisi dalla mitragliatrice o dal mortaio con le scarpe ancora nuove, senza
aver visto l'Albania alla luce del sole. A Durazzo erano passati dalla nave ai
camion che li avevano portati a Tepeleni, donde, a piedi, avevano raggiunto subito
la posizione assegnata sui Trebescini, a Dragoti, all'alba erano già uscite
le pattuglie e alcuni alpini erano morti prima che a casa loro arrivasse la cartolina
spedita da Bari.
Il
battaglione aveva 340 uomini su due compagnie, più un plotone comando.
Armamento: moschetti, fucili mitragliatori e una mitragliatrice per plotone. La
posizione assegnata al "Cervino" era un punto allora sguarnito, alla
congiunzione di due grandi unità. Contro questo punto debole si scatenava
lo sforzo del nemico e per tre giorni il "Cervino" combatté senza
viveri. Ecco il resoconto di un ufficiale superstite, il tenente Cossard: "Non
facemmo a tempo a conoscere i nostri uomini: quando si cercò di riassumere
i fatti per iscritto, solo eccezionalmente fu possibile dare un nome all'alpino
che avevamo visto cadere accanto a noi".
Nei
primi giorni le compagnie furono subito decapitate: uccisi i due comandanti, Brillarelli
e Mautino, ucciso poi l'aiutante maggiore Astorri che aveva piantato il comando
ed era uscito con una pattuglia. Il battaglione non seppe mai che cosa fossero
i cambi, i turni di riposo, il rancio caldo: per tutto un mese durò la
sua battaglia, combattuta per plotoni e e per squadre, davanti al nemico oppure
alle sue spalle aggregati ora a questa ora a quella divisione di fanteria, spesso
senza colelgamenti, cosicché le più gravi decisioni le pigliavano
talvolta i caporali. Tutta la Undicesima Armata conobbe presto quei meravigliosi
soldati dalla nappina azzurra, i "Cervinotti" che non andavano mai a
riposo e che lasciarono l'Albania soltanto quando restarono in sessanta, col comandante
Anelli ed alcuni ufficiali feriti all'ospedale e gli altri sottoterra.
Per
alcuni giorni il comando del battaglione fu tenuto da due sottotenenti. Un'altra
volta un sottufficiale, Giacomo Chiara da Alagna Sesia, alto due metri, si trovò
ad essere il più elevato di grado del "Cervino" mentre i greci
attaccavano i resti del battaglione dopo un fuoco infernale di artiglieria.
Chiara
restò accovacciato al riparo fino al momento in cui il nemico scattò
all'attacco; quando sentì l'alto grido dei greci, saltò sul punto
più alto della trincea, dritto in piedi, colossale, col mitragliatore imbracciato
come un fuciletto da ragazzi, e prese subito a sparare e sparare, cambiando l'arma,
sempre eretto in tutti i suoi due metri in mezzo alle pallottole, solo davanti
al nemico, tranquillo, preciso, invulnerabile. Discese soltanto quando il nemico
tornò indietro, e tutti gli alpini gli saltarono addosso ridendo e piangendo
per toccarlo; era proprio incolume, non un graffio, voleva soltanto bere. Quando
i superstiti tornarono ad Aosta, le stesse scene; tutti volevano vedere e toccare
Chiara, promosso aiutante di battaglia; quando entrava in una camerata di reclute,
tutti si mettevano sull'attenti e quando usciva gli andavano dietro come in processione.
Giacomo
Chiara, incolume nell'inferno di Albania, è morto dopo la guerra sul Monte
Rosa, in una disgrazia stupida, come dicono gli alpinisti. È precipitato,
chissà dove, nessuno l'ha più visto, non ha una tomba.
Un
mese dopo il suo arrivo in Albania, il "Cervino" non esisteva più;
aveva combattuto una sola battaglia, dal primo all'ultimo giorno senza appoggio
di artiglieria, senza poter comunicare e tanto meno segnalare gli atti di eroismo. In
primavera il maggiore Salomone, nuovo comandante, riportò in Italia sessanta
uomini. Il "Cervino" era tutto lì. C'era il sottufficiale Maltempi
di Domodossola, con una gamba in meno; c'era il medico Lincio, ferito anche lui,
ma recuperato prima che cadesse in mano al nemico. Il battaglione fu ufficialmente
sciolto, ma nel novembre 1941 arrivò l'ordine di ricostituirlo. TRa i primi
a presentarsi ecco il tenente medico Lincio appena guarito. Dopo l'Albania seguirà
il suo battaglione dove vorranno i superiori comandi. Un altro medico suo amico
vuol seguirlo ma ha un piede malato. Per non andare all'ospedale si opera da sé,
in treno. Fu così che il tenente medico Reginato partì per la Russia
con un dito in meno, per restarci dieci anni.
 Novembre
1941: un altro cartello sulla porta di un ufficio: "Battaglione Alpini Sciatori
Monte Cervino". Dentro l'ufficio c'è il tenente colonnello lombardo
Mario D'Adda. Da bambino saltellò sulle ginocchia di Edmondo De Amicis,
da sottotenente comandò i resti di un battaglione che scendevano straziati
dall'Ortigara ed ebbe un rimprovero perché le uniformi erano in disordine.
Ha un gran naso e una faccia strafottente: tra migliaia di volontari sceglie uno
per uno gli alpini per il "Cervino" (la vecchia regola, tutti assi dello
sci, tutti scapoli, tutti informati di quel che aspetta il battaglione, dovunque
vada). Destinazione? Finlandia, si dice. D'Adda pianta ai superiori comandi una
grana colossale inaudita: gli alpini del mio battaglione sarenno equipaggiati
come voglio io e il regolamento può volare fuori dalla finestra A Roma
finiscono per dargli ragione cosicché in tutto l'esercito si spargono notizie
favolose: gli alpini del "Cervino" hanno due paia di scarpe Vibram a
testa, giubbe con pellicciotti preparati su misura da una ditta che veste le dive
del cinema; tende polari, un binocolo prismatico da generale per ogni comandante
di squadra, maglie termiche, predule da riposo, moschetti automatici; tutto fuori
ordinanza, tutto contro i regolamenti.
Il
"Cervino" ebbe ancora due compagnie di sciatori, cui si aggiunse una
compagnia A.A. (armi di accompagnamento); la sua forza raggiunse i seicento uomini.
Invece della Finlandia la destinazione era in Russia; per i soldati della montagna
era stata scelta la pianura del Don.
La
vita in Russia del battaglione durò esattamente dodici mesi: il primo combattimento
ha la data del 22 marzo 1942 a 32° sotto zero sul fronte di Ploski ; ultimo
combattimento, coi resti del reparto, il 22 gennaio 1943, a Olikowatka. Da seicento
che erano, tornarono in settanta.
In
un anno il "Cervino" fu sbattuto di qua e di là, quasi sempre
per via ordinaria. Via ordinaria voleva dire a piedi. Combatté da solo,
con la "Julia", con divisioni tedesche, col raggruppamento Barbò;
operò al completo, come battaglione, e frantumato in decine di pattuglie.
Ed anche sull'immenso fronte russo si sparse larghissima la fama del "Cervino",
vennero generali tedeschi a portare manciate di crici di ferro ed il bollettino
germanico citò il battaglione nell'ordine del giorno.
Ecco
quel che raccontano alcuni superstiti. Il 18 maggio 1942 c'è l'ordine di
occupare il villaggio di Klinowy. Ordine eseguito, villaggio occupato, quand'ecco
due reggimenti russi attaccano nel paese il "Cervino" col proposito
di rioccupare Klinowy e di travolgere poi la linea di partenza del "Cervino".
Due reggimenti, diciamo, di fronte ad essi. D'Adda fa ripiegare il battaglione
fino a un punto stabilito da lui, ferma i russi prima della nostra linea e duo
giorni dopo, con un balzo rabbioso, riparte all'attacco e riprende il villaggio.
Non un uomo è caduto vivo in mano al nemico. Il tenente Frascoli non c'è
restato nemmeno da morto. Mentre il battaglione si ritirava combattendo, il suo
attendente Domenico Caspani da Sondrio, vide l'ufficiale cadere morto e tornò
indietro, verso i russi che avanzavano, per portarlo via. Si prese il corpo inanimato
sulla spalla e corse per riunirsi ai compagni; ma i russi stavano per raggiungerlo,
ed allora l'alpino Caspani posò a terra la salma, si voltò verso
di loro e cominciò a sparare, fermandoli per un momento; poi si caricò
un'altra volta il tenente e ripartì di corsa. Ancora i russi addosso, altra
sota, altro caricatore sparato, e via di nuovo; e un'altra volta ancora e due
e tre volte, finché Caspani poté deporre il suo tenente morto fra
le nostre linee e ripulirgli la faccia insanguinata e pettinarlo per l'ultima
volta, come se fosse suo figlio.
Anche
qui, come in Albania, ci sono i morti di cui non si sa niente: uccisi dal parabellum
o dalla katiuscia mentre erano soli nel deserto gelato, caduti con le loro tute
candide sulla neve, bianco su bianco, e così spariti.
Quando
a dicembre i russi scatenano la loro tremenda offensiva, il "Cervino"
si trova a fianco della "Julia" a condividerne il martirio. Il
22 dicembre irrompono in una falla i russi, fanteria e carri. A contrastarli arrivano
i carri tedeschi. Si potrebbe star fermi e fare il tfo. Invece il tenente Sacchi
dà un grido: "Cervino!!", si toglie gli sci e balza sul primo
carro tedesco, quello che è già in mezzo ai russi: tutti gli alpini
fanno lo stesso; su ogni carro compare un grappolo di scatenati in tuta bianca
che sparano raffiche, lanciano bombe, disperdono la fanteria nemica cosicché
i carri della stella rossa ripiegano. I tedeschi saltano fuori dai loro panzer
a fare le congratlazioni, ma Sacchi non c'è più: bisogna andarlo
a cercare, morto, nella neve sporca. Adesso
non si riposa più, fino alla fine.
Il giorno di San
Silvestro del 1942, ecco ancora i carri russi e stavolta gli alpini sono soli
con le loro povere armi contro i mostri d'acciaio. Scrivono
un nuovo capitolo di tattica militare: attacco di alpini sciatori contro carri
armati pesanti. "Cervino!!" si grida, ed i piccoli uomini bianchi danno
addosso ai carri armati, incendiandoli con bottiglie di benzina, lanciando a grappoli
le loro bombe a mano, colpendo i cingoli con tutte le armi.
Gabrieli
Angelo, caporal maggiore di Rocca Pietore, comanda un cannone anticarro: vengono
sotto i russi e Gabrieli è ferito, ma continua a sparare: un carro è
fermato per sempre, gli altri tornano indietro. Gabrieli non si muove; sa che
torneranno, e infatti eccoli. "Via tutti" ordina il caporale ai serventi
e resta lì solo, col suo povero cannone puntato. Uno dei giganti corazzati
punta verso di lui. "Spara!" gli gridano di lontano. Gabrieli aspetta,
vuol colpirlo ai cingoli, vuole averlo vicino. Lascia che avanzi ancora, a pochi
metri, poi fa fuoco. Il colpo ha spezzato un cingolo, ma il carro era troppo vicino,
per forza d'inerzia fa ancora qualche metro, viene addosso a Gabrieli sanguinante,
ed il caporal maggiore di Rocca Pietore, presso Agordo, è schiacciato col
suo pezzo sotto il carro, dal quale esce a mani alzate l'equipaggio.
22
gennaio 1943. Settantacinque uomini, quelli che restano del battaglione "Cervino",
ingaggiato l'ultimo combattimento, sparando con armi italiane, tedesche, russe,
ribate o catturate. Per l'ultima volta la tenaglia nemica si chiude su di loro
per inchiodarli definitivamente in Russia.
Per
l'ultima volta qualcuno grida il motto del battaglione: "Pistaa!" ed
il cerchio è ancora rotto; i resti del "Cervino", col triangoletto
di stoffa verde che è l'insegna del battaglione, escono armati dalla cerchia
e, sempre per via ordinaria, si mettono in salvo a Karkhov.
La
campagna di Russia ha meritato al "Cervino", unico fra i battaglioni
dell'Esercito Italiano, la medaglia d'Oro e medaglie d'Oro e d'Argento ebbero
ufficiali e soldati, in gran parte alla memoria. Il novanta per cento degli ufficilai
sono morti sul campo; il cappelano Don Casagrande è morto di fame, Reginato
ha cominciato la sua peregrinazione tra i campi di prigionia. Proporzionalmente
alla sua forza effettiva, il "Cervino" è forse il reparto che
ha avuto più decorati: due medaglie d'argento a D'Adda (oggi generale a
riposo), due al capitano Lamberti, che comandò interinalmente il battaglione,
due a un caporale, il veneto Tavcar, due al medico Lincio, e non si possono qui
citare tutti.
 Quando
i superstiti del "Cervino" si riuniscono oggi, basta poco spazio a contenerli
tutti. Ed ogni volta essi tentano di ricostruire l'intera storia del battaglione.
Quelli di Albania chiedono al maggiore Zanelli di raccontare come fu ferito; e
quelli di Russia invitano D'Adda a ripetere quel suo colloquio per radiotelefono
("passo", "chiudo") con un generale che, da molto distante,
gli dava ordini pazzeschi. E D'Adda coprì dapprima il generale di contumelie,
poi fracassò la radio a colpi di pistola. E il generale, da distante, zitto.
Domenico
Agasso Da "Scarponi Saronnesi", giugno 1961 Torna
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