Nikolajewka:
la vittoria della disperazione

L'ultima battaglia della nostra ritirata di Russia, la battaglia della disperazione e della salvezza per sfondare lo sbarramento sovietico a Nikolajewka, iniziò all'una di notte del 26 gennaio 1943.

Il Corpo d'Armata Alpino, accerchiato da reparti corazzati, aveva cominciato a ripiegare dalla linea del Don il giorno 17: in quel momento, il generale Gabriele Nasci, comandante del Corpo d'Armata, poteva contare su 57.000 uomini, nelle divisioni "Cuneense", "Julia", "Tridentina" e "Vicenza". Dopo nove giorni di combattimenti e di marce in condizioni ambientali tremende, nella neve ora gelata ora sabbiosa in cui si affondava sino al ginocchio, e con un freddo fra i 30° e i 40° sottozero, le nostre truppe si trovarono decimate. Migliaia di alpini erano morti e migliaia erano stati catturati dai russi.

Il 25 gennaio, vigilia della battaglia di Nikolajewka, secondo una relazione del comando del Corpo d'Armata, la situazione era la seguente: "La divisione "Cuneense", durante la sosta notturna a Derkupsakaja, è circondata da ingenti forze corazzate russe e di essa non si hanno più precise notizie: certo è che il giorno 25 gennaio scompaiono dalla lotta anche i reparti della divisione "Cuneense" e "Vicenza". La "Julia" più non esiste dal giorno 22. Rimane organica la sola "Tridentina", anch'essa duramente provata e paurosamente ridotta in fatto di uomini efficienti, di armi e di munizioni: ad ssa si accodano migliaia e migliaia di sbandati, non tutti armati, in parte congelati, stremati, che si trascinano più che camminare".

In queste condizioni, la "Tridentina" arrivò verso le 15 del 25 gennaio nel grosso villaggio di Nikitowka, ai margini della vasta piana nevosa che porta a Nikolajewka. Alle spalle della divisione veniva l'immensa colonna dei quarantamila sbandati. Erano italiani, ungheresi, tedeschi che avevano perso il contatto con i propri comandi e fuggivano il combattimento, in attesa che i pochi reparti uniti aprissero loro la strada verso ovest.

A Nikitowka, i battaglioni della "Tridentina" ebbero una breve sosta, la prima dall'inizio della ritirata. Il colonnello Giuseppe Adami, comandante il 5° Reggimento Alpini, così ricorda quel giorno: "Concorre a ridare fiducia agli uomini il sole, l'assenza del vento, la temperatura alquanto mitigatasi, la frequente presenza ai lati della pista di isbe, la possibilità di trovare in esse in abbondanza pane, miele, uova, pollame, patate e rape. Gli alpini, dopo tanto digiuno, possono finalmente sfamarsi. Lo spirito si risolleva e le speranze si rinvigoriscono".

La mia compagnia, la 46^ del Battaglione "Tirano" (5° Alpini). Si disperse fra le isbe in cerca di un posto caldo per dormire, dopo notti e notti trascorse all'addiaccio. Eravamo partiti il 17 gennaio in trecentoquaranta e a Nikitowka ci ritrovammo in un'ottantina, di cui una decina feriti o congelati gravi.

Tutti eravamo più o meno congelati. Il nostro equipaggiamento, già disastroso all'inizio della ritirata, era ridotto a brandelli. Durante gli otto giorni di marcia, quasi tutti avevano gettato gli scarponi di tipo "standard", uguali per la Russia come per l'Africa, perché i piedi congelati gonfiavano, e li avevano sostituiti con strisce o involti di coperte. C'era anche gente scalza o con i piedi fasciati di paglia. Sotto i cappotti con l'interno di pelliccia indossavamo divise di falsa lana, dura come spilli. Gli unici indumenti caldi erano le calze e le maglie che c'eravamo portati da casa nostra la momento della partenza dall'Italia.

L'armamento, già insufficiente e superato, era stato in parte abbandonato sin dal primo giorno di ritirata per alleggerire le colonne. Avevamo conservato soltanto le armi individuali (il fucile modello 1891), qualche mitragliatore, poche mitragliatrici arrugginite, bombe a mano e scarse munizioni. Non esistevano slitte di dotazione, come invece avevano i tedeschi. Le nostre erano quelle portate via ai contadini russi, rozze e pesanti. Per fortuna, i muli c'erano, e furono la nostra salvezza.

Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio, la temperatura riprese a scendere e ritornò quella degli altri giorni, sui 30° sottozero. Io dormivo in un'isba alla periferia di Nikitowka, verso Arnautowo. Eravamo una trentina, accatastati uno sull'altro. Con me stavano il comandante della compagnia, tenente Giuseppe Grandi, di 29 anni, di Limone Piemonte, e i sottotenenti Antonio De Minerbi, di Roma, Mario Torelli, genovese, e Raffaele De Filippis, di Campobasso. Verso l'una sentimmo gli scoppi vicini, come di bombe a mano. Qualcuno disse che c'era l'allarme, am eravamo disfatti e nessuno ebbe la forza di alzarsi. In quel momento era iniziata la battaglia per Nikolajewka.

Ad Arnautowo, un gruppo di case situato su una piccola altura ad un chilometro circa da Nikitowka in direzione di Nikolajewka, forze russe avevano attaccato all'improvviso il Battaglione "Val Chiese" del 6° Alpini e la 33^ Batteria del Gruppo "Bergamo". Contemporaneamente, altri reparti sovietici, affiancati da bande partigiane, avevano assalito a colpi di mortaio e di cannone anticarro il lato sud-ovest del nostro villaggio.

Noi non sapevamo nulla. Alle 4 del mattino il mio battaglione s'incolonnò pensando che finalmente iniziasse una marcia di trasferimento, una giornata relativamente tranquilla, senza essere di nuovo costretti a combattere per aprire la strada alla sterminata massa dei 40 mila sbandati che ci seguiva dall'inizio della ritirata. Il "Tirano", come battaglione di punta, si avvicinò ad Arnautowo su una pista in leggera salita. Per la prima volta il reparto marciava ordinato. Come sempre, gli sbandati si erano fermati a Nikitowka ed esitavano a seguirci, forse perché avevano compreso che i russi ci stavano aspettando al varco.

All'improvviso, piovvero sulla nostra colonna alcuni colpi di anticarro. Venivano da Nikitowka, alle nostre spalle. Vidi slitte e muli saltare in aria, e alpini morti e feriti. Ci fu un attimo di smarrimento, poi ci riordinammo e el compagnie del "Tirano" mossero in formazione d'attacco verso le isbe di Arnautowo.

Il primo di noi a trovare gli alpini del "Val Chiese" e gli artiglieri del "Bergamo" morti nei combattimenti della notte fu il sottotenente Torelli che cadde sotto il tiro dei russi con tutti i suoi uomini. Dopo di lui, partì il battaglione: la 49^ Compagnia a sinistra, la 46^ al centro e la Compagnia Comando con la 48^ a destra.

Lo scontro durò violentissimo sino alla tarda mattinata. Gli ufficiali andarono all'assalto alla testa dei loro alpini, con le armi che per il gelo si inceppavano. Il capitano Franco Briolini, di 35 anni, bergamasco, comandante la 49^, morì. Il mio comandante, tenente Grandi, e il tenente Giovanni Alessandria, di 26 anni, di Diano d'Alba, comandante la Compagnia Comando, vennero feriti gravemente. Caddero fra gli altri, i sottotenenti Giuliano Slataper. 21 anni, triestino; Giuseppe Perego, 23 anni, di Sondrio; Lorenzo Nicola, 26 anni di Piossasco (Torino) e Giovanni Soncelli, 28 anni, di Sondrio.

Alla fine i russi ripiegarono verso Nikolajewka. Noi restammo a raccogliere i feriti presso le isbe di Arnautowo. Grandi, colpito all'addome, era steso sulla neve, nel freddo. Cantava, cantava con un filo di voce e voleva che i suoi uomini cantassero con lui la canzone del capitano ferito. All'intorno giacevano decine e decine di alpini morti. Fra essi il sergente maggiore Stefano Robustelli, di 27 anni, di Grosio (Sondrio); il caporalmaggiore Cesare Marchetti, 25 anni, e il caporale Attilio Colturi, 24 anni, entrambi valtellinesi, e Giovanni Tiraboschi e Giuseppe Traina, ventenni.

La strada per Nikolajewka era aperta. Nella tarda mattinata arrivò il generale Luigi Reverberi, il valoroso comandante della "Tridentina", accompagnato dal colonnello Adami. Reverberi aveva 51 anni, era vestito come noi, con uno strano berretto di pelo alla russa. Stremato ma ancora combattivo ed energico, ordinò alla divisione di preseguire.

Mentre il "Tirano" contava i propri morti e tentava disperatamente di risolvere l'angoscioso problema del trasporto dei feriti, quarantamila uomini sfilarono davanti a noi, correndo con slitte e muli, senza degnarci di uno sguardo. In testa, come sempre, marciavano i pochi reparti organici della "Tridentina" . Al tramonto, i resti della mia compagnia - quattro slitte stracariche di feriti gravi, seguite a piedi da poche decine di feriti leggeri, di congelati, di disperati - si affacciarono per ultimi sulla piana di Nikolajewka.

La città era già avvolta nel primo buio. Per arrivarvi, bisognava scendere un breve declivio e poi superare il trincerone della strada ferrata, sul lato est. Dietro stava la linea avanzata russa con le armi anticarro, mortai, mitragliatrici. In complesso, le forze sovietiche ammontavano a circa una divisione. L'attacco a questo caposaldo era già iniziato sin dal mezzogiorno, quando noi ci trovavamo ancora ad Arnautowo. Il Battaglione "Vestone" del maggiore Bracchi e il Battaglione "Val Chiese" del tenente colonnello Chierici, affiancati da una batteria del Gruppo "Bergamo", avevano tentato di superare la ferrovia, ma erano stati bloccati dal fuoco nemico. Reverberi chiedeva l'intervento dell'"Edolo". Soltanto quest'ultimo, al comando del maggiore Belotti, poteva portarsi all'attacco perché noi del "Tirano" ci eravamo attardati nella marcia.

I resti di un gruppo corazzato tedesco aggregato alla "Tridentina" e comandato dal maggiore Fischer, appoggiavano l'azione con due cannoni controcarro semoventi e due carri armati leggeri. Arrivarono due aerei sovietici. Ronzarono a lungo, volando così bassi che si vedevano le stelle rosse sotto le ali. Dai motori usciva un po' di fumo. Molti credettero che gli aerei fossero stati colpiti; invece erano le vampe delle mitragliere di bordo che sparavano sulla massa nera che oscillava nella piana.

Mentre si combatteva sotto il tiro degli anticarro e delle mitragliere russe cercando di superare il terrapieno, il generale Nasci ordinò di gettare in avanti tutto il peso della sterminata colonna degli sbandati. Migliaia di uomini, in uno spaventoso groviglio di slitte e muli, rotolarono urlando verso il trincerone della ferrovia. Alla testa erano i generali Reverberi e Giulio Martinat, capo di Stato Maggiore del Corpo d'Armata Alpino. Con loro erano i capitani Giovan Battista Stucchi e Giuseppe Novello e altri ufficiali della "Tridentina".

Martinat cadde tra i primi mentre portava gli uomini all'assalto. Aveva 52 anni. Un artigliere alpino del gruppo "Bergamo", Sandro Goglio, che oggi abita a Cuneo, ricorda che mentre correva verso Nikolajewka vide il generale Martinat steso sulla neve, con il braccio destro puntato in avanti verso la città. Morì anche il tenente Giovanni Piatti, di 33 anni, di Como, della 48^, l'unico comandante di compagnia del "Tirano" uscito incolume da Arnautowo. Caddero centinaia e centinaia di alpini. Soltanto il 5° ebbe 576 fra morti e dispersi, e 414 feriti o congelati.

Verso le 18, l'enorme colonna, superato convulsamente il trincerone della ferrovia, travolse la linea di resistenza sovietica e si gettò verso le isbe ancora difese da centri di fuoco nemici. Non si sapeva dove alloggiare le centinaia di feriti, perché tutte le case erano invase dagli sbandati oppure occupate dai soldati russi. Anche per i sovietici, sopraffatti dalla massa enorme di italiani piombata sulla città, esisteva il problema della sopravvivenza. Anche loro erano provati dai combattimenti, con molti feriti, paralizzati come noi dalla temperatura a 30° sottozero.

In questo ambiente, in certi settori della città si stabilì quasi una tregua forzata. Lo scrittore Mario Rigoni Stern, allora sergente maggiore della 55^ del "Vestone", entrò in un'isba occupata da soldati russi. Aveva fame. Una donna gli porse un piatto di latte e miglio. Rigoni Stern mangiò sotto lo sguardo dei sovietici, poi ringraziò e uscì.

Alle due di notte del 27 gennaio, con un grido che rimbalzò da un'isba all'altra, arrivò l'ordine di lasciare Nikolajewka. Riprendeva la ritirata verso ovest, verso la salvezza. A noi ufficiali toccò il compito più straziante: scegliere tra i feriti quelli da portare con noi, i meno gravi, per i quali v'era qualche speranza di salvezza. Gli altri, colpiti all'addome o al torace, dovevano essere abbandonati.

Nel buio la disperazione aumentò. I nostri compagni urlavano, non volevano essere abbandonati. Qualcuno, strisciando nella neve, arrivava fino alle slitte e si aggrappava, implorando, piangendo. Così fece uno dei migliori della 46^, l'alpino Rinaldo Tironi, di 30 anni, valtellinese. "Tenente, tenente" mi gridò. "Sono Tironi, non mi riconosce? Non mi abbandoni!". Lo lasciammo nel freddo. Era una legge bestiale alla quale non potevamo sottrarci.

Il nostro comandante di compagnia, tenente Grandi, morì poco prima dell'alba, appena fuori l'abitato di Nikolajewka, dopo un'agonia senza lamenti. Il suo cadavere rimase sulla slitta sino al mattino del 28, quando lo seppellimmo sotto un palmo di neve.

Lo sbarramento principale era stato superato. Camminammo ancora per cinque giorni e cinque notti, nel freddo polare e nella tormenta, incontrando diversi centri di resistenza nemici, sotto i continui attacchi della caccia sovietica. I piloti russi volavano indisturbati: mai, dall'inizio della ritirata, era comparso anche un solo aereo italiano, neppure per cercarci. In testa continuò a marciare la "Tridentina" , seguita dalla colonna ininterrotta degli sbandati che si allungava nella steppa per una profondità di circa 30 chilometri.

Il 31 gennaio, presso Wosnessenoeka, trovammo pochissime ambulanze con il generale Gariboldi, comandante dell'Armir. Caricammo sui veicoli i feriti più gravi. C'era anche un alpino con un braccio amputato ad Arnautowo che si era trascinato per sei giorni con il moncone congelato. Il freddo lo aveva salvato dalla cancrena. C'erano pure alcuni tedeschi, in tuta bianca. Ne fermai uno e gli chiesi se voleva darmi la sua pistolmachine per un pacchetto di sigarette. Accettò. Ormai l'arma non gli serviva più.

Come straccioni, passammo davanti al generale Gariboldi, curvi, a gruppetti, con le coperte sulla testa. Ci guardò. Sfilavano i resti della sua armata. Con noi c'era anche suo figlio, sottotenente del 5° Alpini.

Percorremmo altri 700 chilometri a piedi, sempre incalzati dai russi che stavano avanzando. Il 1° marzo raggiungemmo Gomel. Diciassette giorni dopo eravamo in Italia. La nostra tragedia era finita. Per andare in Russia, nell'estate del 1942 erano state necessarie duecento lunghe tradotte; per ritornare in patria, nella primavera del 1943, bastarono 17 brevi convogli ferroviari.

Nikolajewka fu una grande vittoria, la vittoria della disperazione. La battaglia venne combattuta e vinta dalla "Tridentina", ma anche la "Cuneense", la "Julia" e la "Vicenza" contribuirono con il loro sacrificio alla salvezza del grosso del Corpo d'Armata Alpino. Pur operando in posizioni di fiancheggiamento e di retroguardia, queste tre unità impegnarono ingenti forze sovietiche alleggerendo in questo modo la pressione sulla divisione di Reverberi. Il 27 gennaio, i resti della "Cuneense", ormai all'estremo limite della resistenza umana, furono circondati e catturati a Valuiki.

I superstiti del Corpo d'Armata Alpino, tornati in Italia, raccontarono la loro esperienza. Parlavano con entusiasmo della popolazione ucraina e con odio degli "alleati" tedeschi. Citiamo da una relazione dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito Italiano:
"La popolazione ucraina - per pietà, simpatia o per ordine ricevuto dalle autorità russe - fu sollecita nell'alleviare sofferenze, offrì da mangiare, vestire e possibilità di riposo ai soldati dell'Armir".

Come si comportarono i tedeschi? Dice la stessa relazione: "Dalle isbe, a mano armata, venivano cacciati i nostri soldati per far posto a quelli tedeschi; nostri autieri, a mano armata, venivano obbligati a cedere l'automezzo; dai nostri autocarri venivano fatti discendere nostri soldati, anche feriti, per far posto a soldati tedeschi; dai tren carichi di nostri feriti venivano sganciate le locomotive per essere agganciate a convogli tedeschi; feriti e congelati italiani venivano caricati sui pianali dove alcuni per il freddo morivano durante il tragitto, mentre nelle vetture coperte prendevano posto militari tedeschi, non feriti, che, avioriforniti, mangiavano e fumavano allegramente quando i nostri soldati erano digiuni da parecchi giorni. Durante il ripiegamento, i tedeschi, su autocarri o su treni, schernivano, deridevano e dispregiavano i nostri soldati che si trascinavano a piedi nelle misere condizioni che abbiamo descritte; e quando qualcuno tentava di salire sugli autocarri o sui treni, spesso semivuoti, veniva inesorabilmente colpito col calcio del fucile e costretto a rimanere a terra".

Ricordo che il 30 gennaio, appena fuori dalla sacca, i tedeschi delle retrovie si divertivano a fotografarci. Era quasi come se il nostro disastro fosse una loro vittoria e ci segnavano a dito con disprezzo. Il 9 marzo, a Slobin, il maggiore Gerardo Zaccardo adunò il Battaglione "Tirano" e ci parlò della tragedia e della ritirata:

"È un insulto per i nostri morti parlare ancora di alleanza con i tedeschi: dopo la ritirata, i tedeschi sono nostri nemici, più che nella guerra del 1915".

Il messaggio dei superstiti fu la condanna dell'assurda politica di guerra del fascismo. Questo spiega perché le popolazioni delle valli che avevano visto morire i loro figli in Russia si schierarono subito, d'istinto, con la Resistenza. Così avvenne nelle vallate di Como, dove bruciante era il ricordo dei quattordicimila caduti e dispersi della "Cuneense". I partigiani lottarono contro i nazi-fascisti anche per conto dei fratelli, dei figli, degli amici che erano morti in Russia.

Nuto Revelli
Da "La Stampa", n.22, gennaio 1963

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