Vorrei
baciare un mulo Il
tempo, che ci separa dai fatti lontani della vita, ha un'importanza relativa,
marginale: certi avvenimenti si stampano nella mente con tale nitida precisione,
che la freschezza del ricordo non subisce offuscamento: ed è come se il
tempo si fosse fermato in uno con essi.
19
gennaio 1943: una giornata che ho vissuto soltanto ieri a dispetto del tempo che
segna più di venti anni passati. Allora, come in questo momento che scrivo,
alle quattro del pomeriggio, l'Edolo si attestava sulla base di partenza
per l'attacco. Ci stavano dinanzi, nel gran mare di neve, le colline di Skorobib,
fosche di minaccia, pronte a dischiudere crateri di fuoco.
Era
un caposaldo russo, acquattato sornione nella bianca ovatta: il primo che venisse
a interporsi tra noi e la Patria sul cammino insanguinato della ritirata. Bisognava
spazzarlo via, annientarlo: e sentivamo che saremmo passato sopra quel baluardo
di ghiaccio, perché l'anima nostra era già oltre, sulla strada di
casa. Un attacco tedesco, sferrato da pochi sbandati, era fallito; ora i Russi,
annidati sulla cresta delel alture, aspettavano noi.
L'Edolo
distende le sue Compagnie. La 52a agisce sulla sinistra; il mio plotone - terzo
fucilieri - all'estrema sinistra di tutto lo schieramento attaccante. Al di là
di noi, il vuoto, il mistero, il cielo ingrugnito sopra il bianco senza fine.
Siamo pronti: tutto è silenzio; c'è nall'aria diaccia l'attesa fissa,
spasmodica, che sempre precede il terrificante rito della battaglia.
Fiori
di morte Il
primo tratto è in contropendenza. Ci tuffiamo giù per la china a
corpo perduto, mentre si sveglia il sinistro miagolare delle pallottole: trafiggono
la neve e sollevano una ridda di fiori bianchi intorno a noi: fiori di morte.
Poi
incominciamo a salire, lenti, disseminati fra pieghe di neve, caparbiamente protesi
verso la cima. Dall'alto scendono lingue di fuoco, sempre più vicine, sempre
più vicine e urlanti. Mi mordono quasi la carne.
L'anima
si stringe intorno al fucile impatinato di ghiaccio. Il cuore è in gola;
le tempie battono forte, la faccia brucia di calore benché sia sempre affondata
nella neve, su cui guizza solo il filo dello sguardo al momento di premere il
grilletto. Un altro balzo, un altro tuffo: sono vivo; mi hanno schivato i fiori
di morte che ho visto corrermi ai piedi, zigzaganti, in cerca di me, per trafiggermi.
Infilo
un caricatore nuovo e sparo in su, verso la cresta, cui le nostre Breda
avventano fiondate rabbiose, invelenite. Ma i Russi sono coperti e noi spariamo
alla cieca; invece, per loro, noi siamo nitidi bersagli neri nell'immenso biancore.
Avanti
ancora, come serpi, strisciando la pancia sul ghiaccio, con le tasche, le giberne,
le maniche e la bocca piene di neve: e tanto fuoco ci corre sopra la schiena!
Alla mia sinistra Muttinelli cade in modo strano, innaturale: non è il
tuffo deciso di uno che, vivo, si proietti nella provvida neve cercando ripar:
è il pesante cadere di chi, folgorato, crolla inerte a metà dello
slancio: infatti non spara più; si raggomitola stringendosi un fianco.
Sulla
destra è sparito Moioli: centrato da una cannonata, è stato polverizzato,
col suo mitragliatore con cui aveva fatto prodigi da leggenda sotto i reticolati
del Don. Pare impossibile che, in un attimo solo, possa annientarsi un coraggio
così smisurato. Raggiungo Muttinelli, strisciando. "Madùna
me!" è l'ultima invocazione che sento: poi si distende diritto, immobile:
per lui è finita con una palla nel fianco.
Anche
Beatrici è stato colpito: lo vedo fare piroette in mezzo alla neve come
se fosse impazzito, tanto è tremendo il suo strazio. Ma bisogna arivare
alla meta, bisogna stringere i denti e procedere verso la cima donde ci rotola
addosso l'inferno; cinque carri armati! Mai ho provato un terrore così
sconvolgente: il mio volto deve essere un'orribile maschera segnata di paura agghiacciante.
Tra
poco saremo tutti schiacciati da quei mostri di ferro che ridono dei nostri fucili
e scendono giù dalla china con baldanzoso fragore. Ora siamo formiche che
lottano contro i giganti invulnerabili, i quali assorbono le schioppettate come
caresse. Signore, guarda quaggiù!
La
mano mi corre alla schiena, alle bombre che saranno l'ultima difesa contro la
valanga di ferro. Ma quando già penso, inorridendo, di essere fatto poltiglia
sanguinolenta, avviene il miracolo. L'unico carro armato tedesco, che abbiamo
dietro di noi, si arresta in mezzo alla neve e scaglia cannonate secche, precise,
contro i carri russi che scendono all'impazzata: il primo s'incendia, due sono
immobilizzati, gli altri si danno alla fuga.
Beccato Veramente
la morte mi ha sfiorato coi suoi gelidi artigli, ed ora mi sento leggero, come
se la mia pelle fosse divenuta imperforabile. Ma, al nuovo balzo, una scarica
elettrica m'investe la gamba sinistra e si diffonde dolorosa lungo le ossa: sono
stato beccato, non posso più camminare.
Mi
schiaccio fin sotto la neve e resto ad ascoltare il furore sempre più acceso
della battaglia che si allontana davanti a me, finché l'eco dei "Savoia!"
d'assalto si perde lontano.
Mi rialzo in mezzo ad un silenzio
di tomba. Sono calate le ombre, ma le macchie nere dei morti, su tutto quel bianco,
sono più cupe della notte. Chiamo soccorso. Mi risponde un grido lontano:
è l'alpino Maccarana, del secondo plotone, anch'egli ferito ad una gamba,
anch'egli privo di aiuto in mezzo al ghiaccio e ai cadaveri: siamo solo due vivi
fra tante ombre lugubramente fredde e distese. Ci trasciniamo l'un verso l'altro. Forza,
Maccarana, forza! Ancora un poco e saremo vicini: ci faremo compagnia. Ho bisogno
di te, fai presto! Ho bisogno di sentire che c'è ancora qualche cosa di
vivo in questo carname glorioso. Forza, Maccarana! Pensa a quando saltasti acrobaticamente
una siepe, ad Alpignano, per fuggire alla "ronda" che voleva pescarti
senza permesso... alla fuga veloce attraverso i campi... ai muri della caserma
scalati in silenzio... Certo: avevamo appena mangiato polenta e coniglio tra grande
scintillio di bicchieri e di risa... ed avevamo le gambe buone... Ma no, non pensare
a queste cose, altrimenti il cuore ti scoppia e ti arresti in mezzo alla neve:
ora siamo soli nel buio, nel gelo, dimenticàti...
No,
non del tutto dimenticàti: ecco un'ombra correre balzelloni giù
dal pendio; due ombre: un alpino e un mulo; sono venuti apposta per noi, per rimorchiarci
fuori da questo disperato silenzio di morte, per ricondurci sulla pista battuta,
dove un rigagnolo di gente viva scorre verso la Patria.
Non
ho più visto, da allora, il giovane alpino del mio plotone; non ricordo
il nome; non so neppure se è vivo.
Ma ogni anno, il
19 gennaio, quando scatta cronometrica l'ora dei ricordi, e rivedo le nevi di
Skorobib solcate da guizzi di fuoco, io gli mando un grazie ed una benedizione.
E sento una gran voglia di dare un bacio a lui... e due al mulo. Vittorio
Bozzini Da "Veci e Bocia", Numero 1-2, gennaio-febbraio 1967 Torna
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