La
ritirata degli Alpini in Russia fu tutta una leggendaria impresa Una
lunga battaglia per la salvezza e per l'onore Ma
c'è ancora qualcosa da dire di quella leggendaria impresa che nell'opinione
corrente è ricordata come un'umiliante disfatta; ed è stata al contrario
la più fulgida vittoria dei nostri alpini, che pure tante altre onorate
battaglie hanno nella loro storia. La asperrima marcia invernale che viene detta
nel linguaggio tecnico "ripiegamento" fu in realtà una pertinace
avanzata contro un avversario che aveva già creato linee di difesa sulla
via del ritorno dei nostri che attaccato e respinto si ritirava ogni volta su
altre munite posizioni per contrastare loro di nuovo il passaggio.
Il
Corpo d'Armata alpino, composto delle divisioni "Tridentina", "Julia"
e "Cuneense" e della divisione di fanteria "Vicenza", aveva
abbandonato le sue posizioni sul fiume Don non perché attaccato e battuto,
ma per ordine del Comando dell'Ottava Armata da cui dipendeva, quando già
tutto il resto del fronte germanico era in ritirata o in sfacelo. Il 14 gennaio,
appena avuta conoscenza della rottura delle linee tedesche, il Comando dell'Ottava
Armata chiese al superiore Comando tedesco l'autorizzazione di fare arretrare
il Corpo d'Armata alpino per non perdere il contatto con l'armata ungherese; ma
Hitler personalmente respinse la richiesta dicendo che il corpo degli alpini italiani
doveva resistere ad oltranza sul Don.
Rimasto
così del tutto isolato, il Corpo d'Armata alpino la sera del 17 gennaio
iniziò il ripiegamento con ordine e calma esemplari, pur avendo dovuto
abbandonare grande parte degli autocarri e delle artiglierie di medio calibro
per mancanza di carburante. Ebbe i primi scontri con truppe russe o con partigiani
che l'attaccavano di fronte o sui fianchi, la sera del 19.
Oltre
ad impegnarsi quotidianamente in queste azioni di disturbo, gli alpini prima del
combattimento di Nikolajewka dovettero infrangere due poderosi bastioni di difesa
dei russi, il primo sulla linea Rossosk - Opyt il 20 sera, il secondo sulla linea
Olichiwatka - Warwarowka il 22 gennaio; il combattimento di dieci ore per la conquista
di Nikolajewka fu la vittoriosa conclusione di una lunga battaglia di sette giorni
contro un nemico poderosamente armato ed equipaggiato, contro il gelo della steppa,
contro tormentose bufere di vento.
Vittoria
conseguita a carissimo prezzo, grazie al quasi totale sacrificio delle divisioni
"Julia", "Cuneense" e "Vicenza". Da un rapporto
intitolato L'Ottava Armata italiana nella seconda battaglia difensiva del Don
compilato a cura dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, appare
che ben poco si sa della sorte di queste divisioni. È scritto nel rapporto,
con parole che non si possono leggere senza rabbrividire:
"La
«Julia», i cui resti il 22 gennaio erano rpesso Sceljakino, pare che
a tale data sia da ritenersi annientata. La «Cuneense», duramente
provata e scompaginata nell'attraversamento di Sceljakino e Warwarowka, sarebbe
accorsa al richiamo del cannone su Malakijeva (24 gennaio). Durante la sosta notturna
in Derkupsakaja sarebbe stata circondata da ingenti forze corazzate russe".
Nessun
aggettivo, nessun drammatico giro di frase potrebbe ricordarne con maggiore angoscia
l'oscuro sacrificio di quelle porposizioni al condizionale, "sarebbe accorsa
al richiamo del cannone", "sarebbe stata circondata".
La
vittoria della "Tridentina", e dei pochi superstiti delle tre divisioni
distrutte a Nikolajewka, aprì agli scampati la via della salvezza. Ma non
poterono i vittoriosi concedersi, come generalmente avviene, un sereno riposo,
uan tregua nel gravoso compito; ripartirono la notte stessa per un altro calvario,
una marcia forzata di cinque giorni per non dar tempo al nemico di riaversi e
preparare altre resistenze, nella steppa initirzzita dai trenta gradi sottozero,
dovendo abbandonare giorno per giorno gran parte delle armi, dei feriti, dei congelati
perché i quadrupedi non reggevano più a trasportare i cannoni e
le slitte; e giunti finalmente sulle ricostituite linee tedesche di retroguardia
e ritrovata una certa organizzazione, viveri, ambulanze a cui consegnare gli ottomila
feriti e congelati, dopo tre soli giorni di sosta ancora una catabasi di quaranta
giorni per settecento chilometri fino a Gomel, in tranquilla retrovia, finalmente. Paolo
Monelli Da "La Stampa", n.23. gennaio 1963 Torna
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