Il
crudo lamento della guerra Era
una notte nera, il 21 gennaio 1943, un buio plumbeo, nevischio e gelo; la colonna
s'imbatteva in un piccolo villaggio e maturava l'idea di un poco di sosta.
M'introdussi
in un'isba dove alcuni alpini studiavano di sistemare dei feriti, così
pensai di non rubare posto alle loro necessità. Scaricavano
poi diverse slitte, uniche ambulanze della steppa, in cui si mescolavano i morti
e i vivi con cancrène, schegge e piombo nei corpi, pidocchi. Venivano sistemati
a terra, in qualche modo, gli uni vicini agli altri; diversi erano trasportati
come se fossero stati fragilissimi e lentamente adagiati, perché ogni movimento
gli dava dolore lancinante per le schegge che mordevano le carni. L'intera isba
veniva riempita nelle sue tre stanze. Ogni ferito aveva certamente un po' di sollievo;
non si poteva lasciarli fuori all'addiaccio durante la sosta, anche se avvolti
in coperte, perché c'era un pericolo più grande: il nemico e il
senso d'abbandono.
Trovai
una strettissima panca che misi contro un muro e tentai coricarmi un poco, di
fianco, solamente per riposare. Avevo attorno una visione che mi metteva in imbarazzo;
sentivo soffrire quei corpi, da un rumore sommesso e indecifrabile; la somma dei
loro dolori e pensieri creava un'atmosfera di Gesù in croce, e poneva una
precisa domanda alla coscienza; ogni moto del loro corpo provocava, a quelli feriti
da schegge, un mugolìo represso di dolore; essi avevano grande dignità,
solo riscontrabile tra veri uomini.
Mi
avvidi che non c'era un ufficiale; che ci voleva un dottore per lenire quelle
pene, e maturai l'idea di cercarne uno ad ogni costo. Erano tutti della "Tridentina";
quelli sani volevano salvare i compagni senza pensare minimamente ai sacrifici
per trasportarli ed alimentarli in qualche modo: il cuore puro non può
che ragionare così! Mi offrivano anche un pezzo di una specie di polenta
appena impastata, che dovetti mettere sul forno per cuocere un poco.
Avrei
potuto mandare un alpino a cercare un dottore, ma non avevo sufficiente fiducia
che, anche trovandolo, riuscisse a condurlo fino all'isba. Ritenevo che la presenza
di un ufficiale potesse essere più efficace nel convincere un dottore dell'impellente
necessità della sua presenza.
Uscii
con l'intenzione di frugare in ogni isba, fino a trovarlo. Cominciai dalla più
vicina, tutt'attorno era silenzio, sentivo nitido lo scricchiolìo della
neve sotto gli scarponi, avevo l'impressione che le isbe ansimassero per la pancia
rigonfia di cose indigeste al nemico. Aprii una porta, la doppia portae chiesi:
"C'è un dottore qui?", e ripetei più volte. Così
di isba in isba e sempre negativamente.
Quasi
tutte le stanze erano buie, usavo un accendisigari lungo dieci centimetri per
fare un poco di luce, quando, a tre metri da me, notai l'attendente impalato e
quasi assente; pensai: "Se vorrà venire con me, mi ha ben visto e
sentito". Non si muoveva, il bisogno di riposo e l'istinto di conservazione
erano un misto di forze negative che l'attanagliavano al suo posto; morì
poi, durante la prigionia tedesca, di stenti e malattia: forse il suo spirito
sentiva già i segni premonitori e voleva sfuggirli.
Finalmente
trovai un dottore, per fortuna non impegnato, che mi seguiva senza incertezze,
adoperandosi poi senza soste. Ricordo un ragazzo, con la carne del lato sinistro
del volto completamente staccata dal teschio per un taglio verticale di baionetta,
che chiedeva: "Dottore, la mia faccia tornerà come prima?". "Sì,
sì..." rispondeva il dottore. Come poteva non rassicurarlo? Bisognava
pure dare vita alla speranza!
Il
dottore se ne andava dopo l'improba fatica, tornando tra i suoi. Io cercai, allora,
quella specie di polenta di cui sentivo il bisogno dopo un'intera giornata di
digiuno; ma non c'era più: cosa umanamente comprensibile, qualcuno la riteneva
un dono della Provvidenza.
Vittorio Zanotti
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