L'ultima galletta dell'alpino Moioli Gennaio 1943, linea del Don. I russi investono i capisaldi dell'Edolo. Fuoco micidiale, violentissimo. Scenario bianco, livido, ribollente di scoppi. Alpini abbarbicati al ghiaccio delle postazioni, come radici di pianta avvinghiate alla terra. Sul nastro del fiume, gremito di russi, picchiano secchi i mortai da 81. Mietono a man salva le Breda scagliando folate di pallottole. Ma sempre nuove ondate irrompono dalle trincee, e si ricompone l'immenso formicolio di uomini che sguscia in rigagnoli neri tra le pieghe della coltre nevosa. Quelli che riescono a passare il braccio del fiume, scampando ai crateri dei mortai si fanno sotto; e strisciano, invisibili, schiacciandosi fin dentro la neve, arandola col corpo. Ma i nostri mitragliatori formano sotto i reticolati una barriera imperforabile. Qui si esaurisce lo sforzo dei russi per quanto fitti reparti mandino al massacro. Non uno giunge salvo alle nostre trincee. La notte è un inferno. Vampate di luce sinistra squarciano il buio. Pallottole traccianti segano l'aria con scie incandescenti: dritte, tese, velocissime. E appena il fuoco si placa, dilaga il lugubre urlare dei feriti che spacca il cuore e riempie di orrore la tenebra. In uno di questi momenti di tensione angosciosa, intravvedo nel buio il sergente Saltori. Veterano del fronte occidentale e d'Albania, ha la pelle dura e il fegato corazzato. Lo agguanto e lo aspiro di prepotenza nella mia buca: "Qua, vecchio lupo. Dimmi csa ti pare, tu che ne hai viste di tutti i colori". La risposta è introdotta da una pacca affettuosa che quasi mi demolisce: "Sta tranquillo, Bozzini. Se i russi passano io mangio una bomba a mano. Alpini così non li ho mai neppure sognati". E mi raconta di Moioli che, cinquanta passi più a destra, gli ha fatto strabuzzare gli occhi per l'incredibile ardimento. Allo scoperto sotto i reticolati, incollato al mitragliatore giorno e notte. Non sente il freddo, la fame, la stanchezza. Non vuole il cambio, mai. Il capo-arma, accucciato vicino a lui, infila caricatori su caricatori. Moioli spara con la destra. Nella sinistra tiene la sigaretta accesa, e fuma, imperturbabile, come fosse in un'osteria a giocare a briscola; e infila i russi ch'è un castigo di Dio. E quel pazzo di Maccarana! Ogni tanto si sporge a gridare le più sconce insolenze ai russi che attaccano, inframmezzandole con il ritornello: "Vieni qui, che te la do io la pastasciutta!". Il 17 gennaio: i russi desistono e l'arroventato duello finisce. Neanche un palmo di terra è stato perduto. Ma alle quattro pomeridiane, ecco la folgore a cielo sereno: ordine di ripiegamento! Altrove il fronte ha ceduto e siamo accerchiati. All'alba del 19 si riprende la marcia. Un rogo immane spande nella neve riverberi di luce rossa, sanguigna: in Podgornòje abbandonata le fiamme divorano comandi, depositi, magazzini. La bufera si è placata. L'aria è limpida e immobile, il freddo polare. Nella distesa bianca si snoda l'interminabile colonna di Alpini: piccoli uomini, che vanno allo sbaraglio contro la trappola gigantesca che si è chiusa ermeticamente d'ogni parte. Inizia così la folle avventura che avrà come campo di azione gli squallidi ghiacci della steppa, dove tramano insiedie mortali l'inverno e i russi. Io e Moioli sostiamo in un'isba per far sgelare una galletta. Altri hanno compiuto la stessa operazione prima di noi e la stufa è accesa. Improvvisamente notiamo che la colonna si è fermata. Mi corre un brivido freddo lungo le ossa. Vuol dire che il cammino è sbarrato dai russi: ora bisogna sfondare; e tocca a noi aprire la breccia, perché l'Edolo è il battaglione di testa. Mentre osservavo le fiamme calde, amiche, levarsi nel gran braciere della stufa, mentre sentivo la galletta ammollirsi nelle mie mani, già ero deciso a restarmente in quella provvida isba dove il caso mi aveva portato; e già una maligna riflessione si faceva strada nel mio cervello con la perfidia dei sottili allettamenti: "Questa volta almeno, la pelle è al sicuro". E mi pareva più dolce il tepore, goduto a apese di chi andava al macello per aprire la strada verso la Patria e la casa. Quando staccai lo sguardo dalla stufa, mi accorsi che gli occhi di Moioli mi fissavano intensamente: erano lucidi, accesi, ansiosi; certo egli attendeva da me l'esempio e l'ordine di correre subito dove gli altri sfidavano la morte anche per noi. Ma la mia bocca restò chiusa. Per un istante ci fu silenzio nell'isba. Non si udiva che lo scoppiettio del fuoco, e fuori, il trepestare dei conducenti e dei muli arenati nel mare di neve. Poi Moioli disse: "Io vado". Afferrò il mitragliatore deposto in un angolo, diede un morso alla galletta, s'incamminò nella neve. Andai con lui. Arrivammo giusto in tempo per scattare all'attacco con il nostro plotone. Mezz'ora dopo, Moioli non c'era più. Nel corso del combattimento, una cannonata lo aveva centrato in pieno: e s'era come dissolto in una fiammata di gloria. Quando calò la notte sulla distesa di morti, e io spasimavo per la mia gamba ferita, mi venne istintivo rimpiangere il pasto interrotto nell'isba calda e sicura. Allora, sullo sfondo dell'aria buia, rividi lo sguardo di Moioli: intenso, vivo, ardente; e di fronte a lui, ragazzo di vent'anni, che era andato alla morte senza battere ciglio, con un boccone di galletta nello stomaco e un cuore gigante, ebbi vergogna di me stesso. Vittorio Bozzini Torna all'indice
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