Tutti erano fratelli La sera era scesa su Nikolajewka. Già tutta la colonna era entrata in paese e qua e là si accendevano dei fuochi. Sopra le isbe stagnava il fumo dei camini e dei bivacchi, l'odore del combattimento era ancora nell'aria. Il freddo rendeva acuti i rumori ma pareva che oltre le ultime isbe e gli ultimi orti nulla più esistesse: solo il buio. Per le strade passavano in silenzio slitte e gruppi di uomini. Sembravano ombre che uscivano dalla neve. Erano, invece, gli ultimi del Corpo d'Armata Alpino: gli sbandati, i feriti, i congelati e i generosi che si erano attardati a cercare un viso caro o noto tra quelli rimasti sul campo di battaglia. Un sergente dei conducenti andava affannosamente da una strada a un'altra, da isba a isba, da un gruppo di ombre a un altro e a tutti chiedeva: - DI che reparto siete? Di quale reparto? Durante tutto il giorno aveva corso lungo la colonna a cercare munizioni per quelli della sua compagnia che combattevano per aprire la strada. Le aveva anche portate al mitragliatore che sparava dalla scarpata della ferrovia e verso il tramonto, quando il Generale aveva ordinato: "Tridentina avanti!" alla testa dei suoi pochi conducenti aveva inastato la baionetta gridando: "Sconci, avanti!". Ora
non era a riposare accanto ad un fuoco ma affannosamente chiedeva a tutti: - DI
che reparto siete? Stavano
silenziosi attorno a un piccolo fuoco. Alcuni, accucciati, dormivano; uno fasciava
il braccio di un compagno con una ventriera; una altro scioglieva della neve nel
coperchio della gavetta. Ora,
vicino al fuoco, lo riconobbero. Altre volte lo avevo visto alla compagnia quando
veniva a salutare il fratello e i paesani; portava sempre sigarette e anche vino. Il sergente dei conducenti si chinò sul ferito e chiamò: - Paesano, paesano - toccandolo leggermente sulla spalla. Il ferito aprì gli occhi lamentandosi e lo riconobbe: - Ahi, - disse - ahi Tuo fratello è rimasto ferito stamattina verso la ferrovia. L'ho visto che sanguinava dal mento Era vicino al casello quando siamo scesi la seconda volta Datemi acqua Uscì di corsa, senza parlare. Attraversò il paese, gli ultimi orti e incominciò a chiamare. Dei gemiti gli risposero, poi altri ancora e non sapeva dove andare. Delle cose oscure, immobili, si intravedevano sulla neve. Sopra il cielo era buio e profondo, dietro v'era il paese con i fuochi e innanzi il nulla e questi gemiti. Si avvicinò a un'ombra sulla neve, stette un poco sospeso; si levò i guanti e si inginocchiò accanto. Era una cosa fredda come la neve, rigida come il ghiaccio. Si rialzò e camminò oltre Sì, questo si lamentava. È vivo! Gli sollevò la testa. Cercava di riconoscere i lineamenti di quel viso. - Oh portami via. Portami via oh fai piano le gambe piano. Se lo caricò sulle spalle e lo portò nelle prime isbe. Per tutta la notte, senza aver conoscenza del tempo né della fatica, per tutta la notte, chiamando suo fratello Giuseppe, portò i feriti nelle isbe di Nikolajewka. Per tutta la notte dal casello della ferrovia e dal terrapieno, e poi da più lontano, a destra e a sinistra, oltre la scarpata e verso il viadotto, inciampando nella neve, barcollando, cadendo, senza guanti e senza passamontagna. Scrutava nel buio il viso dei morti pulendoli dalla neve, ascoltava i gemiti dei feriti e li portava giù nel paese perché ognuno era ormai suo fratello. Per tutta la notte dal 26 al 27 gennaio 1943 a Nikolajewka, in Russia, finché venne l'alba. Ormai brancolava come un ubriaco e con gli occhi semichiusi e fissi vedeva come in sogno Cologne, in provincia di Brescia, Italia. Finché i suoi conducenti lo misero su una slitta con i feriti per riprendere la strada verso Ovest. Mario Rigoni Stern Torna
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