Addio
Dolshnik Spesso
mi chiedo che ne sarà di Dolshnik.
Lo salutammo per
l'ultima volta, ventuno anni fa, dall'alto della pista che dirigeva a sud verso
il fronte del 2° Corpo d'Armata, dove la "Julia" era chiamata a
combattere l'ultima sua sanguinosa e vittoriosa battaglia. La mia bella 16a Compagnia
sfilava in perfetto ordine ai margini del bosco, davanti alle postazioni dell'artiglieria
da montagna, veri capolavori di adattamento al terreno, che avevano fatto di quella
località una stupenda base, fornita di ogni possibile comodità,
completamente nascosta all'osservazione nemica. Anche i nostri caposaldi in linea,
benché evidentemente più esposti e soggetti alle esigenze del collegamento
fra i plotoni, avevano l'impronta della operosità alpina. Postazioni per
mitragliatrici riscaldate con piccoli forni ricavati nell'argilla; mulini rudimentali
nei quali si macinava il grano duro per ricavarne certe squisite pagnottelle impastate
con miele trovato nel bosco; rifugi intonacati e dotati di robuste panche e di
sgabelli. Tutto questo veniva improvvisamente ceduto ad altri reparti; ed anche
il pozzo, in via di ultimazione, orgoglio del plotone comando, il pozzo che avrebbe
dovuto fornire acqua alla compagnia, veniva abbandonato. E là, in fondo
alla balca, ecco le piccole bianche isbe di Dolshnik che si stendevano deserte,
fino alla riva del Don. Questo piccolo villaggio era incastonato come una gemma
nello schieramento della 16a Compagnia ed era il centro delle nostre preoccupazioni,
la spina nel fianco, ma anche il simbolo del nostro impegno. Si
trattava di poche isbe, probabilmente di pescatori, distese sul fondo di una balca
che si affacciava direttamte al Don. Ai lati il terreno saliva ripidissimo sino
al margine di due ampie terrazze che dominavano il fiume a perdita d'occhio. A
destra erano i caposaldi della 76a Compagnia, a sinistra i nostri. Il villaggio
era tagliato fuori dalla prima linea ed era abbandonato; la difesa della balca
era affidata alla "16a" ed era sistemata alle spalle del villaggio,
al limite di un vasto tratto di terreno, mianto dalle trupe ungheresi. Si cominciò
con la sistemazione di una linea continua di gabbioni, che vennerò collocati
di notte su tratto pianeggiante tastando pazientemente il terreno per avvertire
la presenza di mine. Di giorno, dall'alto, si misurava con compiacimento il progresso
del lavoro notturno. Contemporaneamente fu scavato un grande fosso anticarro e,
dal lato della 76a Compagnia, furono sistemati i pezzzi che lo prendevano d'infilata.
Restava il problema del controllo del villaggi nelle ore notturne. A questo pensò
la squadra esploratori, composta di elementi scelti e fortemente affiatati. Avveniva
dunque che ogni sera, all'imbrunire, la squadra si presentasse allo sbarramento
dei gabbioni, nel settore tenuto dal 2° plotone. Veniva spostato un cavallo
di frisia e la squadra esploratori, infilandosi in uno stretto camminamento, si
dirigeva rapidamente verso il Don. Arrivare alla "piccola casetta in riva
al Don" non era impresa senza rischi. Il camminamento attraversava il villaggio
e, in certi punti, diventava galleria, passava sotto un'isba e sbucava nuovamente
all'aperto. C'era pericolo, a metter fuori la testa, di ricevere una buona mazzata
da qualche elemento di pattuglie nemiche. Queste avrebbero potuto precederci,
attraversando il fiume gelato.
Una
volta arrivato alla piccola casetta in riva al Don, il comandante di squadra dava
per telefono le novità al comando di compagnia e disponeva per il servizio
di guardia notturno. Compito questo assai duro, soprattutto per l'impenetrabile
oscurità di certe notti, durante le quali era terribilmente difficiel mantenere
i nervi a posto.
Eppure
la squadra esploratori du sempre all'altezza del suo compito. Sapeva che qualunque
azione offensiva del nemico avrebbe dovuto puntare su Dolshnik. Perciò
fece buona guardia, catturò prigionieri e considerò la piccola casetta
in riva al Don come cosa sua. Così fra una veglia e l'altra nacque, a pochi
metri dalle linee nemiche, nelle quali, con grossolana ingenuità erano
installati altoparlanti che, dopo aver diffuso fino alla noia le note di "Chitarra
romana" ci invitavano alla resa, nacque, dicevo, una stupenda canzone in
friulano, che ebbe larga diffusione anche dopo la fine della guerra.
E
le squadre asploradôrs cun in teste il lôr majôr lôr
'e levin a passà la gnôt sul Don. Lôr
'e levin a cjalà par che i russ non vegnin cà, dal balcon
di che cjasùte in rive al Don. Andavo
spesso a trovare i miei esploratori. Ci fu una volta che, sbucando dal cunicolo
scavato sutto un'isba, due ombre mi si pararono dinnanzi. Gli ordini erano severissimi;
non potevano essere dei nostri. Il mio attendente fu lesto a darmi una gran manata
sulle spalle, mentre imbracciava il moschetto. In quel momento uno dei due si
fece riconoscere. Si trattava di due alpini del Battaglione "Gemona"
che avevano fatto qualche chilometro dietro le linee dei nostri caposaldi, attirati
a Dolshnik dalla speranza di catturare qualche gatto randagi da cucinare al forno.
Ma
venne la volta che alla piccola casetta in riva al Don ci dovetti andare in pieno
giorno. A organizzare una visita di questo genere non poteva essere che il colonnello
Zacchi. Con la sua parlata mezzo veneta e mezzo romanesca mi disse a un tratto:
"Lu che ne dice? Andiamo a dare un'occhiata al Don". Accese la ennesima
sigaretta, che lasciò penzolare, come sempre, dalle labbra e si avviò
tranquillamente. Fummo naturalmente visti e presi di mira da tiratori nemici ad
ogni passaggio scoperto. Ma Zacchi non conosceva la paura. Per fortuna, quando
si trattò di tornare, cominciava ad imbrunire. La squadra eslporatori atteneva
il nostro rientro al varco dei reticolati.
Questo
era Dolshnik, strano villaggio che noi rispettammo e facemmo rispettare. Quando
la 16a Compagnia lo salutò per l'ultima volta, marciando verso il suo destino
di quota 176, lasciò laggiù tutti i suoi ricordi di reparto ordinato,
efficiente, veramente bello. Capi squadra, furieri, cucinieri, sarto, calzolaio,
magazzinieri: tutti al loto posto. E nelle postazioni armi ben lubrificate, affidate
a mani salde e cuori generosi. Che sarebbe rimasto di tutto questo? Tutto sarebbe
stato sacrificato senza risparmio per l'oore dell'Italia. Sulla quota 176 fu piantato,
più saldo di qualunque insegna, più duraturo di qualunque monumento
un nome: "Cividale". Ma questo fu possibile perché intorno a
Dolshnik, e per Dolshnik, la 16a Compagnia si era ben preparata, come le altre
compagnie del Battaglione nei loro settori, a compiere interamente il su dovere.
Ecco
perché in quel piccolo villaggio è rimasto gran parte del nostro
cuore.
Fu dal margine del grande bosco di betulle, alla prima
curva della pista, che ci volgemmo a guardare quelle povere isbe bianche. Addio,
dunque, o Dolshnik, addio piccola casetta in riva al Don. COn voi la guerra era
ancora una bella avventura. Ora andiamo davvero a combattere, forse a morire.
Vi lasciamo per sempre la nostra giovinezza, addio!
Carlo
Crosa Da "8 lustri di vita", ANA Sezione Monte Nero - A. Picco,
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