Il primo capitolo de "La Cinque"

 

«Ha qualche preferenza, riguardo alla specialità?» chiese il colonnello, compilando distrattamente un modulo.

«Tutto, tranne Alpini» risposi, dopo una pausa di riflessione. Lui smise di scrivere e sollevò lo sguardo:

«Come mai?» domandò, con una certa aggressività.

«Soffro il freddo e non ho familiarità con la montagna» spiegai conciliante. “Maledetta sfiga, ho subito beccato il colonnello alpino!” pensavo, intanto. “Ecco finita la mia carriera di allievo ufficiale.”

Decisamente, con la naja non me ne andava una dritta. Solo pochi giorni prima ero stato scartato dalla leva di mare, per carenze alla vista; a quel punto si era fatto avanti l’Esercito e mi aveva chiesto, nelle vesti di un anziano, bonario ufficiale, perché mai non avessi fatto domanda per diventare ufficiale di complemento nella fanteria. L’idea m’era subito piaciuta, così mi ero iscritto al concorso e dopo una settimana ero stato convocato, insieme ad altre decine di “borghesi”, in una caserma tanto grande quanto anonima. Per tre giorni avevo risposto alle domande più strane, ero stato sottoposto ad esami medici e psichici e finalmente ero arrivato al colloquio conclusivo. A quel punto, palesando grande astuzia, avevo urtato la sensibilità dell’ufficiale che mi stava davanti, sdegnando il glorioso Corpo degli Alpìn.

“Be’, pazienza,” pensai, “evidentemente i militari non sanno che farsene, di me!”

Mi sbagliavo: la Grande Mamma aveva in serbo per me cose ben più perverse...

 

§

 

A fine Settembre mi arrivò la cartolina-precetto: avevo vinto il concorso. Dovevo presentarmi il 10 Ottobre ad Aosta, dove avrei frequentato il 121° corso per allievi ufficiali di complemento. Arma: fanteria. Corpo: Alpini.

Diavolo d’un colonnello, m’aveva fregato! Mentre viaggiavo sul treno diretto ad Aosta, lo immaginavo scrivere la destinazione sul mio fascicolo e dire, tra se e se: “Faremo di questo genovese un vero alpino, e per di più fiero di esserlo!”

Ebbene, ero sicuro che non ci sarebbero riusciti: da otto anni lavoravo sulle navi, adoravo il porto, la sua gente, i suoi problemi; in più, a quei tempi, nuotavo come un’anguilla e mi esaltavo al solo pensiero di sole, mare e sabbia. Certo, sarei diventato un ufficiale degli Alpini, ma quanto alla fierezza...

 

§

 

Alla stazione di Aosta vidi una montagna umana, tutta vestita di grigioverde, che sorrideva sotto i baffetti curati. Immaginavo confusamente perché si trovasse lì, ma qualcosa mi spinse a far finta di niente, ad atteggiarmi a manager di successo in viaggio d’affari e ad allontanarmi rapidamente.

Iniziai a vagare per la cittadina, trascinandomi dietro la mia valigiona, che diventava sempre più pesante. Alla fine, esausto, vidi un carabiniere e gli domandai se poteva indicarmi la Smalp, la Scuola Militare Alpina. Lui rispose, con un accento marcatamente veneto:

«Ostregheta, fiòl, la x’è un po’ lontana... Comunque, fa bene a volersi alenàr fin da ora, ciò! Ecco...» mi si accostò, «deve andàr in cima a questa salida, poi a sinistra, per quattroxento medri, poi a destra, poi a sinistra, poi ancora a sinistra, poi ancora a destra e in fondo a la via troverà la caserma. Vada, vada, poareto!» Mi diede una pacca sulle spalle e si girò, distratto da un camion che in quell’istante ci passava accanto sferragliando; feci in tempo a notare che il cassone era pieno di ragazzi in borghese, tutti con la loro valigiona.

 

§

 

«Dunque, dovete dire solo: “signorsì”, “signornò” e “comandi” ogni volta che venite nominati. È chiaro?» Il sottotenente Campi sembrava una persona posata e a modo, e si spiegava con estrema chiarezza.

«Sì...» disse qualcuno.

«Ho detto signorsì!!!» esclamò lui, perdendo molta della sua pacatezza. «Adesso restate qui, e aspettate!»

Eravamo una decina: ci avevano lasciati in piedi, tutti in fila, all’ombra di una palazzina. Ci fissavamo con occhi stralunati, senza niente da dire. Dopo venti minuti toccò a me ed entrai nella costruzione.

«Professione?» chiese un sottotenente, dall’altra parte di una scrivania.

«Studente lavoratore» scandii con orgoglio.

«Che studio?»

«Lettere, mi mancano tre esami e la laurea.»

«Che lavoro?»

«Curo l’organizzazione delle operazioni di sbarco e imbarco, per conto di alcuni armatori, nel porto di Genova» dissi, tutto d’un fiato. L’ufficiale rimase un attimo in silenzio, come a considerare con gravità quanto gli avevo puntigliosamente esternato. Poi la sua espressione si allargò in un ampio sorriso:

«Bravo, ti faremo fuciliere!» mi disse. Notai vagamente che gli altri ufficiali trattenevano a stento le risate, ma non vi diedi peso.

 

§

 

Arrivai in una stanza: “la Cinque” mi avevano detto, con un tono solenne, come se potesse essere diversa dalla quattro, dalla sei o dalla venti. Dentro c’era già qualcuno: mormorammo qualche saluto, poi ognuno tornò alle sue occupazioni. Presi possesso della mia branda, la quarta a sinistra. La camerata era costituita da un unico ambiente, di forma rettangolare: la porta era situata al centro di uno dei lati corti e aveva di fronte, sul lato opposto, due finestre, larghe e basse; le brande, intervallate dagli armadietti, occupavano le due pareti più lunghe, cinque da una parte e cinque dall’altra. I muri erano bianchi e il pavimento in cotto; la stanza, del tutto disadorna, era abbastanza pulita.

Dopo un po’ entrò un altro ragazzo, dalla carnagione molto scura. In un primo momento trovai strano, che gli Alpini reclutassero anche i meridionali; poi mi resi conto che anche la mia carnagione non era propriamente rosea: dopo tutto i miei nonni materni erano di Nuoro...

Il ragazzo si avvicinò e mi porse la mano.

«Mi chiamo Marco» disse. Aveva un bel sorriso, la voce cantilenante, da gatto e un accento sfacciatamente milanese.

«Ciao, io mi chiamo Filippo» risposi. Aveva una stretta forte e asciutta.

«Adunata! Adunata seconda compagniaaa!!!» strillò una voce nel corridoio. Noi mollammo tutto e corremmo fuori, perché ci avevano detto di fare così.

«Di corsa! Di cooorsa!!» ci ammoniva un sottotenente, fermo nel corridoio. Facemmo i tre piani di scale in un baleno e in capo a cinque minuti fummo tutti fuori, nel piazzale antistante la compagnia.

«È uno schifo!» urlò un altro sottotenente. «Avete impiagato sei minuti! Il Centodiciannovesimo corso ci metteva trentotto secondi, a fare adunata! Tornate su, di corsa.»

«Adunataa!» venne urlato appena fummo tutti nelle camerate.

«Due minuti...» disse lo stesso ufficiale. «Fa sempre schifo. Comunque, seguitemi, in fila per uno.»

In capo a pochi secondi ci trovammo in coda, davanti a un basso edificio, dal quale proveniva un vago odore di cibo.

Era il primo pasto sotto naja e dire che fosse ottimo e abbondante sarebbe stata una bugia. D’altra parte, nessuno chiese il nostro parere.

 

§

 

Quel pomeriggio ci venne insegnato che nella Smalp gli allievi non potevano camminare, nel senso che ogni spostamento all’interno della caserma doveva avvenire di corsa, sia che si andasse a mangiare, sia che si trasportassero materiali, già in divisa o ancora in borghese. Io avevo un solo paio di scarpe, degli stivali camperos, sicché, in capo ad una settimana – fui uno degli ultimi a ricevere l’uniforme – mi ritrovai con una fastidiosa tendinite ai polpacci.

I primi cinque giorni furono impiegati nelle cosiddette operazioni di reclutamento: barbiere, visita medica, vestizione, fotografia, vaccinazione... Dalle sei di mattina alle dieci di sera, con brevi soste per i pasti, passavamo la giornata a correre da una parte all’altra della caserma e ad ammassare materiali e capi di vestiario in un armadietto che diventava sempre più piccolo. Nei ritagli di tempo, sottotenenti puntigliosi e poco pazienti ci insegnavano i concetti di “attenti”, “riposo”, “adunata” e soprattutto si beavano ad ascoltare le nostre “presentazioni”:

«Dovete dire: “Allievo ufficiale Pinco Pallino, seconda compagnia”; poi il vostro plotone. Poi l’incarico: fuciliere, mortaista, alpino d’arresto e così via, a seconda dei casi. Alla fine, esclamate “comandi!”. È chiaro? Lei!»

«Chi, io?»

«Chi io un cazzo! Si presenti.»

«Ehm, Paolo Arrigo, seconda compagnia, quarto plotone, uhm... alpino d’attacco! Comandi...»

«Che schifo! Mongolino! E che, giochiamo a calcio, qui!? D’arresto, alpino d’arresto! Da capo.»

 

§

 

«Gli Alpini costituiscono un corpo particolarmente formale» ci stava spiegando il sottotenente Stoppani, «e il contrappello è il momento di massima formalità della giornata...»

Eravamo nella “nostra” camerata, tutti e dieci. Stavo cercando di ascoltare quello che diceva l’ufficiale, ma una parte di me pensava proprio alla Cinque: in confronto al resto della compagnia eravamo un bel gruppo di “vecchietti”: quasi tutti studenti universitari, avevamo rimandato la naja fino a quando ci era stato possibile. Solo Giovanni aveva diciannove anni; in compenso però era una guida alpina e almeno lui, pensavo, si sarebbe trovato a suo agio, lì dentro. Anche Marco, del resto, quello che avevo scambiato per un meridionale, poteva dire la sua: infatti si era procurato l’abbronzatura sui campi da sci, dove faceva il maestro.

«... Insomma,» stava continuando Stoppani, «per il contrappello la stanza dev’essere in perfetto ordine e pulita come una sala operatoria. Ognuno sta dietro al proprio sgabello, sul riposo, immobile e in silenzio. Quando entra l’ufficiale per l’ispezione il capo camerata, che è il primo a sinistra, dà l’attenti e “presenta la forza”, nel senso che dice quanta gente c’è abitualmente nella camerata e quanti sono assenti in quel momento, specificando i nomi e le cause delle assenze. Quando l’ufficiale è uscito, il capo camerata dà il riposo e tutti eseguono, ma rimangono sempre fermi e in silenzio, finché non viene ordinata la fine del contrappello. Solo allora potete farvi il letto. È tutto chiaro?»

«Signorsì!» Ci sentivamo già dei militari a tutti gli effetti. Il sottotenente se ne andò e noi iniziammo a prepararci per il contrappello, con dedizione e puntiglio: Gerry, che era il primo a sinistra, provava la presentazione; qualcuno eseguiva attenti e riposo, qualcun altro raccoglieva da terra batuffoli di polvere. Io cercavo di levare le pieghe al mio “cubo”, cioè l’insieme costituito dal materasso piegato in tre, dalle lenzuola e dalla coperta, che stavano ripiegate sopra. Il copriletto doveva fasciare il tutto in un blocco geometricamente perfetto, che andava appoggiato alla sponda posteriore del letto.

«Eccolo, eccolo, è qui affianco.» Stavamo ascoltando la presentazione del capo camerata della Due, la nostra dirimpettaia.

«È qua, è qua...» Vedemmo girare la maniglia della porta, poi apparve il sottotenente Pansa, il comandante del nostro plotone.

«Allievi a posto,» partì Gerry, «allievi at-tenti! Allievo ufficiale Gerardo Fortunato, seconda compagnia, secondo plotone, fuciliere; capo camerata della camerata numero... uhm... quattronocinque!»

«Schifo! Da capo.»

«Allievo fortunato... no...»

«Da capo! Mongolino...»

Una volta che Gerry ebbe informato l’ufficiale sui presenti e gli assenti (“forza effettiva dieci, forza presente dieci”), questi passò a controllare la pulizia della stanza. Guardò il pavimento, andò lentamente fino al davanzale, osservò brande, cubi e armadietti. Poi scosse la testa:

«Signori, attenzione» disse. «Fino ad ora non abbiamo punito, perché il signor capitano vuole così, e questo che vi viene concesso è un grande privilegio. Ma dalla prossima settimana inizieranno a fioccare le punizioni e se voi presentate una camerata come questa... Ecco,» fece scorrere un dito su un armadietto, «qui non avete passato neanche lo straccio... Dovete dare la cera tutti i giorni, lavare i vetri... e lassù ci sono delle ragnatele! No, no... Volete diventare dei sottotenenti? Be’, avete scelto la strada peggiore. Attenti, signori, perché non tutti diventeranno ufficiali degli Alpini. Attenti...»

Rimanemmo colpiti. Era la prima volta che un sottotenente non ci rimproverava sbraitando, ma così era molto peggio: come, oltre a tutte le altre sfighe c’era anche la possibilità che ci cacciassero?!

Il contrappello iniziava regolarmente alle undici di sera e si protraeva di solito fino all’una, l’una e mezza. Appena veniva gridato “fine contrappello”, si spegnevano le luci e noi dovevamo cambiarci e rifare il letto al buio. Quasi ogni sera qualcuno, rimboccando le lenzuola, si infilava una maglia della rete sotto le unghie. Solo al secondo mese Marco scoprì che dopo alcuni minuti l’occhio si abituava all’oscurità e il letto poteva essere fatto senza grandi problemi...

 

§

 

Il cubo divenne dal primo giorno una fonte di preoccupazione: doveva essere perfettamente squadrato, liscio e con gli angoli a novanta gradi; non sempre si riusciva ad ottenere queste condizioni. La pulizia e l’ordine erano due autentiche ossessioni, per i nostri superiori; di conseguenza, lo divennero ben presto anche per noi. In particolare Gerry, in quanto capo camerata e quindi diretto responsabile della pulizia della stanza, era diventato un implacabile rompiscatole: passava interi minuti a controllare la brillantezza delle finestre e della cera sul pavimento, guardando in controluce. Il primo contrappello cui venivamo sottoposti era quello di Gerry, ma per lui era molto più difficile, perché non poteva punire nessuno. L’urgenza della sua voce, quando notava qualcosa fuori posto, era proporzionata alla prossimità del contrappello vero:

«Cos’è, cos’è, cos’è?!» gridava, partendo in quarta sui pedalini verso una branda, generalmente la mia o quella di Giovanni; poi si chinava a raccogliere un pelucco, o a cancellare con lo straccetto una riga sul pavimento incerato.

Gli straccetti erano ben presto diventati gli attrezzi più fedeli, sempre al nostro fianco: se avessimo dovuto combattere una guerra con quelli, l’avremmo vinta a mani basse. Le mani però erano basse più che altro per lucidare i “Vibram”, i famigerati scarponi. Ce li avevano dati marroni, con una banda arancione all’altezza del calcagno e le cuciture di nylon bianco; però li volevano completamente neri – inutile chiedersi il perché, era così e basta – e soprattutto lucidi. I Vibram furono la mia personale maledizione: come tutti mi ero dannato l’anima per farli diventare neri; come tutti avevo usato creme raffinate, pennarelli indelebili e straccetti di pelle, costosissimi; come tutti passavo intere mezz’ore a lucidarli; però i Vibram degli altri brillavano, i miei no.

 

§

 

Era passata la prima settimana e nessuno di noi aveva ancora messo il naso fuori dalla caserma. Io ero talmente sconvolto, che non pensavo si potesse uscire, non mi ponevo neanche il problema; invece quel giorno ci dissero che dall’indomani, se non fossimo stati puniti, avremmo potuto fruire della “libera uscita”. Questa durava dall’ammainabandiera, che avveniva regolarmente alle diciotto, fino alle ventitré, l’ora del contrappello, al quale del resto occorreva presentarsi già in mimetica, con gli scarponi lucidi e il posto branda nel massimo ordine.

«Forza, ragazzi, sta per cominciare» disse Gerry, aggirandosi fra le brande come una fantesca attorno ai suoi pupilli. «Ehi, quel vetro fa schifo!» notò a un certo punto. «Chi doveva pulirlo?»

«Io, ma...» piagnucolò Giovanni.

«Porca puttana, qui ci ficcano dentro!» esclamò lui, andando a lucidare il vetro incriminato e camminando come un robot, perché strisciava sui pedalini. «Ehi, Antonio, tira un po’ la cera, sotto la tua branda.»

«Ragazzi, guardate un po’ qui!» disse Marco, mostrando un dito, nero di polvere, che aveva appena fatto scorrere sotto un armadietto.

«Bah, lì sotto non ci guarderà neppure!» esclamai, con disprezzo. Nello stesso istante, però, si aprì di scatto la porta e un sottotenente biondo, che non avevamo mai visto, schizzò dentro come un razzo.

«Che cazzo parlate, qui!? È da mezz’ora, che continuate a far casino!» urlò.

«Allievi a posto, allievi at-tenti! Allievo ufficiale Gerardo Fortunato...»

«Questa camerata fa schifo! È uno schifo!!» L’ufficiale passava da una branda all’altra, saltando sulle reti con ammirevole equilibrio.

«Capo camerata della camerata numero cinque...»

«Guardate qua! E qua!!» Urlando con voce stridula, quello infilava le mani nei punti più impensabili della stanza, ritirandole immancabilmente sporche.

«... Forza effettiva dieci, forza presente dieci. Comandi!» Gerardo aveva finalmente terminato la presentazione della forza, mentre il sottotenente continuava a spostare brande e armadietti, scoprendo quadratini di polvere neri come la pece.

«State puniti! Tutti!!» Era uscito prima ancora che ci fossimo resi conto di quanto era successo.

«Allievi, ri-poso!» concluse caparbiamente Gerry, sporgendo la testa verso la porta ormai chiusa.

 

§

 

All’adunata puniti del giorno dopo eravamo più di novanta. Fece l’appello l’ufficiale di picchetto, il quale altri non era se non uno dei nostri sottotenenti, che per quel giorno svolgeva dei servizi particolari, come ad esempio la gestione dei puniti:

«Arrigo!»

«Presente!»

«Deve dire “comandi”! Stia ripunito!»

L’adunata durò quattro ore. Spazzammo i viali, pulimmo locali inutilizzati da mesi, incredibilmente sporchi, lavammo pentole e pavimenti, muri e piastrelle, scale e turche. Ogni tanto passava il sottotenente e, ai nostri sguardi interrogativi e speranzosi, rispondeva invariabilmente con uno: “Schifo! Rifare”. Verso le nove, quando ormai disperavo di vedere la fine di quelle fatiche, mi presentai a rapporto dall’ufficiale, perché avevo eseguito l’ultimo lavoro affidatomi: l’accurata pulizia di due gigantesche pignatte, più incrostate del cratere di un vulcano. Il sottotenente stava parlando con un maresciallo:

«D’accordo,» gli sentii dire, «manderò il primo che si libera.»

Stavo già per tornare indietro, perché il significato di quelle parole era fin troppo chiaro, ma lui mi notò:

«Lei!»

«Allievo ufficiale Filippo Rissotto, seconda compa...»

«Sì, sì, va bene: vada subito al circolo ufficiali.»

«Comandi, non so dov’è.»

«Si fotta.»

Dopo pochi minuti, leggendo le targhette di tutti gli edifici, trovai il circolo, un’elegante palazzina che occupava il lato nord dello spiazzo antistante la compagnia. Fornito di secchio, straccio e bastone, varcai la soglia; mi ritrovai all’istante immerso in un ambiente lussuoso e confortevole: i pavimenti erano quasi interamente nascosti da spessi tappeti, le pareti adorne di quadri e appliques; sedie e mobili d’epoca completavano l’arredamento. Inoltratomi per qualche metro, mi ritrovai all’incrocio di due corridoi; mi avviai verso una porta socchiusa, dalla quale filtrava un raggio di luce.

Sbucai in una sala e il mio ingresso fece bruscamente cessare il brusio che l’animava. Vidi due giovani ufficiali sprofondati in ampie poltrone e una ragazza che sedeva dignitosamente sul bordo di un divano. Rimasi incantato a fissarla: i suoi occhi, dolcissimi, erano sovrastati da una fronte ampia, incorniciata da capelli castano chiari, che le scendevano lisci fino alle spalle. Dovevo essere rimasto un po’ troppo tempo a fissarla, perché percepii un principio di movimento da parte dei due uomini che stavano di fronte a lei, quasi volessero difenderla dalla mia insistenza. In quell’istante però una voce decisa mi destò dalla catalessi:

«Da questa parte, soldato!» sentii dire. Mi voltai e vidi un barman, che sorrideva gioviale da dietro un bancone.

Fu allora che mi resi conto del mio aspetto: il più sfigato degli allievi ufficiali, bassotto e tracagnotto, infagottato in una mimetica sporca delle peggiori schifezze della caserma, armato di una micidiale scopa e di un temibile secchio.

Arrossii violentemente: sentivo pulsare gli zigomi e le punte delle orecchie, dove il sangue affluiva a ondate. La bruciante vergogna non m’impedì comunque di lanciare un ultimo, disperato sguardo alla giovane, quasi a voler dire: “Potete farmi qualsiasi cosa, ma ormai l’ho vista!”. Feci in tempo a notare che lei sorrideva apertamente, con la punta delle dita sulle labbra, poi mi avviai disperato dietro al banco. Quando, pochi minuti dopo, ne riemersi, lei era scomparsa.


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