da "La rivolta di Abele"
di Giulio Bedeschi (Mursia 1972)

 

Negli ultimi dieci giorni avevo sentito sempre più vivo il desiderio di recarmi a Torino, accorrere a far visita a un vecchio mio grande amico improvvisamente ricoverato in un ospedale a causa di un gravissimo incidente automobilistico che, a quanto riportavano i giornali, gli aveva causato, fra i vari traumi, molte fratture: il generale Franco Massani. Popolare e benvoluto com’era, certamente una continua processione d’amici lo assediava, non volevo contribuire anch’io a stancarlo. Gli avevo perciò subito scritto facendogli ogni augurio e chiedendogli d’essere lui stesso a dirmi quando potevo andare a trovarlo senza affaticarlo.
Ogni volta i nostri incontri si risolvevano in interminabili chiacchierate, era sempre stato un eccellente conversatore, non era passato con occhi distratti attraverso alla vita, vicino agli uomini, alle cose.
Ci eravamo conosciuti sul fronte russo, quando il capitano Massani comandava una compagnia d’alpini; era stato poi trasferito, con grande suo rammarico, al comando del reggimento con l’incarico di aiutante maggiore. Durante la ritirata ci eravamo incontrati spesso, poiché Massani si spostava infaticabilmente sugli sci giorno e notte lungo l’itinerario di marcia a mantenere i collegamenti, ad animare i reparti, a rincuorare gli alpini; lo si incontrava dovunque. Massani era uno di quei rari uomini che trasmettono forza al solo vederli. Gigantesco in quella sua struttura fisica da statua antica, con quella sua barba nerissima contrastante con l’azzurro degli occhi, con quel suo viso in cui si fondevano intense espressioni di fierezza di energia e di dolcezza, era sempre stato un uomo di straordinaria bellezza; a pensare al Buonarroti, poteva richiamare alla mente un Mosè giovane; a ricordare Mirone, somigliava al suo discobolo che, per un subitaneo miracolo, dall’atteggiamento raccolto si fosse svincolato dal marmo, liberato dalla torsione e drizzato di slancio. E anche ora, a più di cinquant’anni d’età, essendo Massani tornato dalla prigionia di Russia con la barba imbiancata, per noi era persino divertente camminare per le vie cittadine al fianco di quel generale in divisa e vedere tutte le donne che l’incrociavano, calamitate da quel gigante, salire immancabilmente con lo sguardo a quelle due spalle, e perdersi poi subito per lunghi attimi in quei due occhi, in quel viso, in un irrimediabile e palese cedimento all’ammirazione, all’improvviso trasognato stupore. Egli non se ne dava per inteso, e tutti noi suoi amici lo sapevamo, passava oltre facendo conto di non notare; noi scherzavamo anche pesantemente, lì per li, da maschiacci, su quel fatto a ripetizione, ma ben sapevamo invece della sua appassionata esclusiva dedizione alla moglie che aveva ritrovato malata al ritorno dalla prigionia, sapevamo del suo amore per i due figli e per la famiglia assieme a cui realizzava il suo modo di voler essere uomo, integrando così la quasi religiosa vocazione al dovere militare.
Mi giunse un suo telegramma: m’aspettava, mi pregava di andare. All’indomani mi misi in viaggio; quando giunsi a Torino, al grande ospedale, erano le due del pomeriggio.
« Il generale Massani? » chiesi al portiere.

 

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