Riflessi
di Roberto Bertani
Al posto di blocco due carabinieri dagli occhi sbarrati alzarono il palo trasversale e gli autocarri infilarono la pista che conduceva verso est. Sulla distesa di neve quasi subito gli alpini videro che […] quattro carri armati russi venivano incontro […]. All’altezza del posto di blocco…
Giulio Bedeschi
“Centomila gavette di ghiaccio”
Chiusa la porta della baracca si arrestò, la schiena appoggiata allo stipite; chiuse gli occhi e respirò profondamente, a bocca aperta, l’aria tiepida prodotta dalla piccola stufa nell’incessante lotta contro le lame di gelo che trapassavano ogni più piccola fessura.
- Un’altra! - disse in un sospiro.
- Speriamo sia l’ultima - gli fece eco il collega mentre si arrotolava il passamontagna sulla fronte - ci sono trenta gradi sotto zero questa sera -.
- Ieri sera era peggio: trentanove! -.
- Ah! Ecco perché sudavo un po’ là fuori! -. Risero insieme.
Appoggiò il moschetto al muro e mise il cappello sul piccolo tavolo. Si tolse il passamontagna ma non si sbottonò il pastrano, ché per smaltire il freddo che si accumulava in pochi minuti all’aperto ci voleva del tempo. Rabbrividì, pensando al freddo che faceva là fuori e si strinse nelle spalle come a preservare quel poco di calore che il corpo emanava.
Si lasciò cadere sulla panca e appoggiò i gomiti sul tavolo. Avrebbe preferito avere una sedia, con lo schienale, per potersi appoggiare e allungare le gambe; sarebbe stato un po’ più comodo.
Accese una sigaretta, una Tre Stelle. Era una fortuna avere a disposizione le Tre Stelle anziché le Milit o le altre della solita razione dei soldati. Le Tre Stelle erano proprio quelle che preferiva: uno dei pochi privilegi concessi a chi presidiava quel posto di blocco perduto nel ghiaccio.
Guardò il collega che si era disteso sulla branda e aveva chiuso gli occhi. Lo conosceva da pochi giorni, da quando aveva raggiunto la sua nuova destinazione al Comando del Corpo d’Armata, lì a Mitrofanowka, ed erano diventati amici subito: affinità di carattere, forse. Ora, isolati com’erano in mezzo a quel deserto di giaccio, dispersi quasi, in quel posto dimenticato da Dio, la loro amicizia si sarebbe consolidata di sicuro.
Il fumo della Tre Stelle saliva a perdersi verso il soffitto della baracca.
Il collega sembrava già addormentato, ancora avvolto nel pastrano, con il passamontagna arrotolato sulla fronte, le gambe incrociate sporte verso il centro della stanza, mentre la neve attaccata agli scarponi aveva iniziato a sciogliersi e una piccola pozzanghera si era formata sull’assito del pavimento, e nella pozzanghera la debole luce della lampada a petrolio si specchiava rompendosi in mille barbagli ad ogni goccia che cadeva.
Era impossibile tenere asciutto il pavimento quella sera. Continuavano a passare autocolonne di Alpini. Ed era tutto un gettarsi in quell’aria ghiacciata che toglieva il respiro e un ritornare all’abbraccio del tepore della baracca. Fuori e dentro, fuori e dentro. Avrebbero smesso, una buona volta, di passare; sarebbe pur passata, prima o poi, l’ultima autocolonna!
Si chiese dove stessero andando quegli Alpini. Erano della Julia, era scritto sui fogli di viaggio.
Lo avevano sbigottito, seduti sui cassoni degli autocarri, infagottati nelle coperte e nei teli tenda e stretti l’uno contro l’altro nell’illusione di scambiarsi un po’ di calore. Quasi assiderati. E i loro muli! Erano bianchi, coperti di ghiaccio! Statue di ghiaccio.
- Poveri ragazzi! E povere anche quelle bestie - pensò e si sentì molto fortunato a poter godere di quel po’ di calore della piccola stufa.
Intanto aveva preso la borraccia dell’anice e ne bevve un sorso. Solo un po’ ché il calore che dava durava poco; poi si aveva più freddo di prima e si sarebbe dovuto berne ancora, e poi ancora e ci si sarebbe ubriacati e non si sapeva come sarebbe andata a finire.
Si sbottonò il pastrano.
Il collega dormiva. Era più vecchio di lui, era sposato. Gli aveva fatto vedere la fotografia che conservava come una reliquia nella tasca della giubba, proprio sopra il cuore; una foto sgualcita ormai, sciupata per essere stata troppe volte guardata, baciata; bagnata di lacrime forse. Vi si vedeva una donna, bella e ancora giovane, con un bambino in braccio e un altro marmocchio che le stava aggrappato alla sottana: la sua famiglia.
Anche lui avrebbe desiderato avere la foto di quella ragazza. L’aveva conosciuta poco prima di partire, quasi un anno prima e il suo viso gli era rimasto impresso nella memoria e ancor più nel cuore.
La rivide, con il viso illuminato dal sole già basso sulla Giudecca e con i capelli mossi con grazia da una brezza leggera mentre il battello macinava il mare verso San Marco. E il cuore, che stava annegando in una dolcezza profonda e struggente ebbe un tuffo, pensando che avrebbe potuto non rivederla mai più.
Le aveva scritto qualche lettera e lei aveva sempre risposto ed ora era combattuto fra il prepotente desiderio di abbandonarsi a una fragile speranza e l’oscuro timore di una triste illusione. Tanto più che il servizio postale, laggiù, era quello che era e ogni notizia si faceva sempre attendere troppo.
Ora poi che da Roma era giunto l’ordine di far viaggiare la posta via terra… . - Lavativi imboscati! - fu il pensiero sdegnoso che gli si affacciò alla mente e di cui si pentì subito, ché non era sua abitudine discutere le decisioni dei superiori.
- Usi a ubbidir tacendo… -. Quante volte lo aveva sentito ripetere!
Ma quel pensiero gli fece percepire il peso greve di tutta la solitudine che riempiva quel deserto. Sì, perché quello era davvero un deserto; di ghiaccio, ma pur sempre un deserto, ché il paese, più che vederlo, lo si indovinava, per il fumo che dalle isbe saliva a perdersi nel cielo, laggiù, qualche chilometro più indietro, poco sotto l’orizzonte. Quando il cielo era sereno.
Aspirò una boccata di fumo dalla Tre Stelle.
Era una giornata strana quel 18 Dicembre. Brevi autocolonne che transitavano dirette a est e non un’anima in senso contrario. Tutte di Alpini. Era davvero strano.
Chissà dove stavano andando quei benedetti Alpini. Era dal pomeriggio, prima che facesse buio, che si succedevano, un’autocolonna dietro l’altra. Erano rinforzi che affluivano, probabilmente. - Ma perché? - si chiese.
Erano alcuni giorni, ormai, che si combatteva duramente lungo il Don, si sapeva: si sentiva sin lì il rombo di tuono e la notte si vedevano mille bagliori illuminare il cielo. Ma che bisogno c’era di rinforzi? Che i russi stessero per sfondare? Che avessero già sfondato? Impossibile! Ne avrebbe avuto notizia di certo.
Ma si abbandonò a fantasticare su quell’idea strampalata.
Se fosse stato davvero così che ne era stato della Cosseria, della Ravenna, della Pasubio e di tutte le altre divisioni che si succedevano lungo il corso del fiume sino a chissà dove? E se davvero fosse stato così, allora a cosa avrebbero potuto servire quei quattro gatti assiderati con le loro statue di ghiaccio fatte a mulo!? Se davvero i russi erano stati capaci di sfondare un fronte tenuto da divisioni su divisioni, da interi Corpi d’Armata, addirittura, quei poveri diavoli stavano correndo incontro ad un destino oscuro e fin troppo prevedibile. Poveri ragazzi !
Fortunatamente non era così, dunque il motivo doveva essere un altro; altrimenti ne avrebbe di sicuro avuto notizia.
Gli venne anche da pensare che se le cose fossero state così - e stavano davvero così - quello non sarebbe più stato un semplice posto di blocco ma la prima linea.
Aspirò un’altra boccata di fumo.
La prima linea! Una baracca di legno e una sbarra che tagliava in due una pista di ghiaccio la prima linea! - Un ostacolo insormontabile! - pensò; e rise tra sé.
Però non gli dispiaceva immaginare che quella sarebbe stata la prima linea se le cose fossero state così; era stato una sola volta in prima linea, sulle posizioni tenute dagli Alpini sul Don, quando aveva dovuto scortare il Segretario del Partito: una visita breve, naturalmente, ché a “Sua Eccellenza” non si dovevano far correre rischi inutili…!
E ora si sarebbe trovato proprio in prima linea, sull’orlo della terra di nessuno; dove magari si sarebbe potuto rischiare anche le pelle, se le cose fossero state davvero così.
Rideva tra sé, pensando all’ostacolo insormontabile che i russi avrebbero incontrato se mai fossero riusciti ad arrivare sin lì, ma non si sentiva completamente tranquillo; quel buffo pensiero gli scavava il cervello come un tarlo maligno scava nel legno. Comunque il giorno dopo sarebbe arrivato il cambio.
Continuava a guardare il fumo della sigaretta che andava a perdersi verso il soffitto della baracca e notò che quel filo grigio si confondeva un po’ contro il grigio del telino che ricopriva il cappello posato un po’ più in là, sul tavolo.
Intanto sentiva, forte, il desiderio di bere ancora un po’ di anice: era buona quell’anice e ne aveva in abbondanza, ma non riusciva a decidersi, combattuto fra il piacere che quel sapore intenso sempre gli procurava e il dovere che gli impediva di abbandonarsi ad abusarne. Sapeva che era pericoloso, ma la tentazione era forte e il collega, sulla branda, dormiva; avvicinò la borraccia alle labbra, ne assaporò ancora un piccolo sorso, uno solo. Poi avvitò il tappo e la spinse nell’angolo più lontano del tavolo.
Guardava il fumo che saliva dalla Tre Stelle e gli venne da pensare che se avesse tolto quella fodera, il filo sottile si sarebbe confuso quasi del tutto contro il fregio d’argento al centro della coccarda tricolore.
Poi notò che salendo ancora verso il soffitto della baracca il filo si allargava e iniziava a dissolversi proprio nel punto dove, dal cappello, avrebbe dovuto spuntare il pennacchio; allora si diffondeva accennando un movimento tremulo che assomigliava, appunto, a quello dei pennacchi, quando li si usavano naturalmente, durante le cerimonie, se venivano accarezzati dal vento.
Fissò lo sguardo su quel suo cappello che portava da tempo ma con noncuranza, sempre visto e mai osservato come tutte le cose di uso quotidiano alle quali non si dà alcuna importanza.
Era un cappello un po’ strano a dire la verità e anche un po’ buffo a pensarci bene. Un cappello di altri tempi insomma, poco adatto a difendere dal freddo, anzi del tutto inutile e persino ingombrante qualche volta.
Ma era il suo cappello, il loro cappello; era il loro segno distintivo: “Lucerna”, lo chiamavano.
Ed era proprio a causa di quel loro cappello che sin dalla notte dei tempi si erano guadagnati tutti quegli appellativi stupidi che ora non aveva nessuna voglia di ricordare. Lo afferrò, lo rigirò fra le mani, lo osservò come se lo vedesse per la prima volta e gli venne da pensare che, in effetti, se fosse stato di un bel vetro della sua Murano, di tanti bei colori, con una bella lampadina dentro… .
No! Non una lampadina. Ci sarebbe voluta una fiamma viva, una fiamma capace di muoversi, tremula come quella del lume a petrolio che riverberava nella pozzanghera quando lo scompiglio provocato dalla goccia caduta stava ormai per cessare del tutto.
Certamente, una fiamma viva ci voleva; che avrebbe giocato con i colori del vetro e li avrebbe sparsi all’intorno in mille riflessi. Ecco, si! la fiamma di un lume a petrolio.
La luce elettrica sarebbe stata troppo fredda; è immobile, è fredda la luce elettrica. Come la morte; che forse stava aspettando quei poveri diavoli con le loro statue di ghiaccio fatte a mulo.
Fu in quel momento che avvertì il rumore. Lontano, un sussurro. Di motori. Tese l’orecchio. Si! erano motori.
- Altri Alpini che arrivano! - disse forte al collega addormentato sulla branda.
Si alzò di malavoglia, schiacciò quel che restava della sigaretta nel bossolo che fungeva da posacenere, indossò il passamontagna, si abbottonò il pastrano, ne sollevò il colletto, raccolse la Lucerna e la rigirò ancora fra le mani.
Se fosse stata di un bel vetro di Murano avrebbe davvero potuto essere una bella lucerna. Avrebbe dovuto avere anche il pennacchio naturalmente, e la fiamma, danzando, avrebbe spalmato intorno anche il blu e il rosso dei suoi colori.
L’avrebbe potuta regalare a quella ragazza una lucerna così bella. E se il suo desiderio si fosse un giorno avverato avrebbero potuto metterla nella camera da letto, sul cassettone, per accenderla, magari, quando… .
Il rumore si era fatto troppo forte per consentirgli di continuare ad inseguire il dolce sogno e il sorriso che inconsciamente gli aveva illuminato il viso si spense, sotto la ruvida lana autarchica del passamontagna.
Mise il moschetto a tracolla, si calcò sul capo quel cappello un po’ strano e uscì ad affrontare la gelida caligine che avvolgeva il posto di blocco.
Quel rumore veniva da est.
- Possibile che già tornino gli Alpini? - si chiese. Ma prima ancora di aver formulato del tutto il pensiero avvertì che il rumore era diverso dall’abituale. Più sordo, più potente: persino sinistro.
E le vide, le quattro sagome, indistinte prima, ma presto evidenti. Oscuri mostri che avanzavano veloci, sferragliando, stagliati contro le alte scie di neve che si lasciavano dietro, nelle quali la luce argentea della luna danzava facendole brillare di un bianco più vivo del fioco candore di quel deserto; fosforescenti quasi, nel contrasto con il fumo nero che usciva dagli scarichi dei motori.
Gli venne alla mente la scia che lasciano le navi sull’oscurità del mare e si sentì perduto, particella emulsionata che sarebbe subito tornata a confondersi con l’oscura opacità degli abissi.
E un rapido pensiero, un lampo, corse agli Alpini transitati poc’anzi, povere particelle che forse i carri avevano già provveduto a confondere con il vortice fosforescente delle loro scie.
Allora sentì il sangue gelare e un brivido corrergli, feroce, lungo la schiena. Lungo, terribile, come un urlo acuto di dolore che squarcia, improvviso, il silenzio di una pacifica notte d’estate correndo per i canali e per le calli.
A poca distanza dal posto di blocco i carri russi si arrestarono brandeggiando i cannoni; gli spruzzi di neve svanirono lentamente, come candidi manti di seta lasciati cadere, impalpabile velario che si stendeva a sanare le ferite incise dai cingoli sul ghiaccio.
Il bagliore improvviso delle vampe illuminò la neve e gli si impresse insistente dentro gli occhi e il boato violento lo stordì e fu subito percosso dallo schiaffo gelido dello spostamento d’aria.
* * *
Il fregio d’argento al centro della coccarda tricolore avrebbe riflesso i bagliori di quelle vampe, così come fa il vetro di una lucerna quando la fiamma gioca con i suoi colori, se il telino non lo avesse coperto.
Invece quella Lucerna non era che una piccola, fredda, inutile macchia grigia dalla forma un po’ strana sperduta nella desolazione di quel deserto e già velata dal gelo.
Laggiù, qualche chilometro più indietro, poco sotto l’orizzonte, era il fuoco che dalle isbe di Mitrofanowka saliva a perdersi nel cielo, che giocando con i cristalli di ghiaccio spargeva mille sinistri riflessi sul candore lucido di quel deserto.
errebi, settembre 2005
Premio Letterario “Ignazio Silone” - 23^ Edizione
1° premio Sezione “Narrativa”
Parma, 7 Maggio 2006
Roberto Bertani, parmigiano... doc, parafrasando Giovannino Guareschi usa presentarsi come “padre di tre numerosi figli”.
Dopo una vita trascorsa alla Telecom è ora in pensione e coltiva la passione dello scrivere.Soprattutto su argomenti di guerra, trattati a suo avviso troppo raramente, e quelle poche volte in modo interessato e fazioso.
Spera con ciò non tanto di vedere pubblicate le proprie opere, quanto piuttosto di lasciare una traccia a figli e nipoti.
Non ha fatto il servizio militare. Era destinato all'Artiglieria da Montagna; purtroppo - tiene a precisare - è stato esonerato.
Porta il cappello alpino, perché canta nel coro della Sezione ANA di Parma; resta però dell'idea che il cappello lo debbano portare solo gli Alpini.
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