La prova di sopravvivenza
La truna nella neve sul Col San Carlo
di Luigi Neirotti
Ri-poso. Il caporale istruttore ordina qualche minuto di pausa. Il secondo plotone rifiata. Siamo impegnati nell’addestramento formale da parecchie ore, come capita all’inizio di qualsiasi corso allievi ufficiali. Il cortile della Cesare Battisti è interamente occupato dal 113° corso, formato da un centinaio di ventenni degli anni ’80.
I comandi si susseguono incessanti: at-tenti; ri-poso; at-tenti, baionetta! presentat arm! soprattutto tanta marcia in formazione. Mica semplice raggiungere l’unisono in breve tempo ...
Il sole comincia a nascondersi dietro le montagne di Aosta mentre l’aria rimane insolitamente tiepida: l’ottobre del 1983 ci introduce dolcemente verso la stagione più rigida ancora da venire ed in realtà molto più vicina di quanto sembri a noi giovani reclute.
La breve pausa serve per far sciogliere i muscoli, anchilosati dai movimenti innaturali e soprattutto per lenire la scomodità dei pesanti Vibram, ancora nuovi e certo non adatti a calpestare violentemente l’asfalto del cortile della caserma. In futuro si modelleranno perfettamente al nostro piede, ma è ancora presto, la strada da percorrere è ancora lunga.
Abbiamo uniformi ed attrezzatura che odorano di nuovo: siamo allievi ufficiali da qualche giorno. Ancora spaesati e un po’ timorosi stiamo prendendo confidenza con la vita militare. Un mondo, un universo sconosciuto e insospettabile per un universitario come me, fino a pochi giorni prima abituato a passare le giornate sulle scrivanie dell’Istituto giuridico dell’Università di Torino ed il tempo libero sulle piste da sci piemontesi.
Il caporale istruttore a sorpresa comincia ad enunciare una serie di raccomandazioni sul comportamento da tenere durante la marcia e l’addestramento in alta montagna.
L’iniziativa sulle prime m’infastidisce. Tra me e me penso: “ma guarda un po’ se non ci poteva lasciare un attimo di tranquillità”. Ad un certo punto sento un’espressione che mi colpisce: “la prova di sopravvivenza di fine corso”.
“Urca! cos’è questa prova di sopravvivenza?” mi domando incuriosito e mi faccio immediatamente attento.
Sento parlare di campo finale, di truna nella neve, di pernottamento in alta quota, ma non colgo appieno il significato. La mia condizione primordiale di allievo “figlissimo” mi impedisce di comprendere, di lontanamente immaginare. Ci sarà tempo e modo. Tuttavia da questo preciso momento, quel pensiero farà spesso capolino nella mia mente.
Passano i giorni, l’addestramento formale procede sempre più intensamente. La seconda compagnia prende un piglio più marziale. Fatica. Impegno. Tenacia e perseveranza. Veniamo sottoposti ad uno stress psico-fisico notevole.
Eseguiamo la scuola tiri col Garand ’56 e siamo abilitati a svolgere i servizi di guardia armata. Prendiamo in carico tutti i servizi di caserma ed il corso anziano inizia così la seconda parte del corso, quella concentrata sulle attività esterne. La fatica è tanta e tuttavia ci stiamo abituando: pian piano.
Ogni tanto mi torna in mente la prova di sopravvivenza, ma il pensiero è fugace. C’è ancora tanto tempo. E poi: “chissà se vado avanti nel corso ...” penso. La selezione è durissima, vedo ogni giorno qualche compagno costretto ad abbandonare.
Arriva la scuola tiri col fucile mitragliatore e poi con la pistola. Ci impratichiamo nel tiro d’istinto, nel lancio della bomba a mano, con il bazooka. Intanto il nostro addestramento formale si sta completando in vista del giuramento: riusciamo a compiere le conversioni “fronte 12”. Mica male!
Il corso anziano parte per le pattuglie: “Ah! Ci sono le pattuglie durante il corso? Chi lo sapeva”. Scopriamo come si svolgono.
Intanto scorrazziamo per la Val d’Aosta tra marce, addestramento al combattimento e primi atti tattici.
Un freddo mattino di dicembre giuriamo fedeltà alla Repubblica italiana ed ai nostri doveri di soldato.
Nei momenti di pausa si parla e si scherza. C’è sempre il mattacchione che si diverte a ricordare la prova di sopravvivenza di fine corso. “Ma quale sopravvivenza? Qui si fa fatica a sopravvivere ogni giorno”. “C’è tempo, c’è tempo!”. Noi alpini siamo gente con i piedi per terra.
A poco a poco lo spirito di corpo della seconda compagnia si rinsalda. Gli scoordinati giovanotti imparano ad essere un tutt’uno molto marziale.
Un giorno il capitano Graziano decide di farci un “regalo” prezioso: ci concede di urlare “SECONDA!!” prima del “rompete le righe” che chiude ogni attività di addestramento.
E’ questo il periodo in cui scompaiono certi individualismi per cedere il posto al cameratismo assoluto. Chi aiuta un compagno in difficoltà, chi porta lo zaino di un compagno esausto, chi divide il rancio, chi presta la propria auto, chi rifornisce gli altri di viveri e vino.
Non solo il nostro linguaggio è mutato, ma anche il nostro metro di giudizio. Quello che per tutti i comuni mortali sarebbe gran brutto tempo diventa “il tempo ideale del pattugliatore”. A differenza di quanto accade normalmente, per cui chi può cerca di scansare una scomodità, diventa un punto d’onore riuscire a portare la mitragliatrice MG, familiarmente detta “Maria Grazia”, leggiadra creatura metallica di 13 chilogrammi. L’appellativo di cortesia tra allievi diventa “vecchia roccia”.
“Senti qua, metti la mano sotto la mia spallina. La senti la stelletta che sta spuntando?” “Ma va là, banfone! Vai giù e fammi dieci pincie che è meglio” “Te ne faccio venti su un braccio, che io son fuciliere!”.
L’ambiente del corso AUC è un reticolo di relazioni sociali interessanti. Vivendo insieme giorno e notte s’impara a conoscersi a fondo e soprattutto si mettono in comune esperienze e conoscenze.
Chi parla con un allievo anziano, chi con un istruttore. Chi ha avuto un amico o un parente che ha già frequentato la Scuola Militare Alpina. A poco a poco i tasselli del mosaico si completano ed abbiamo la certezza: durante il campo finale, il corso invernale esegue la famosa prova di sopravvivenza nella “truna di neve”. Si dorme in alta quota senza tenda, in un rifugio scavato nel ghiaccio.
“Bestia, questa è tosta!” penso. “Beh, vedremo, siamo dei duri, siamo della seconda compagnia che poi non è seconda a nessuno”.
Intanto sentiamo parlare di marce mitiche, del vallone di Orgere (“l’inferno di cristallo”), dell’assalto di compagnia con i colpi ordinari. “Robe da matti”: le voci talvolta incontrollate e fantasiose si rincorrono.
Il corso è ancora lungo, c’è tempo, ci sono ancora tante cose da fare.
Giuramento, licenza di Natale, una rapida visita a casa con i cari.
Assalto di squadra, di plotone. Marce, esercitazioni e soprattutto tanto impegno e fatica. Tanta fatica e pressione psicologica. Le punizioni fioccano, le licenze invece latitano.
Il sottotenente Ostani (per noi del 113° “ufficiale e gentiluomo”, dal noto film che giusto l’anno precedente ci avrebbe dovuto mettere in guardia), una sera di gennaio batte il record di contrappello: 1 minuto e 37 secondi. L’evento era atteso e preannunciato ed a record conseguito esplodiamo in un applauso fragoroso.
Arriva il primo “compitone” (una serie di esami scritti sulle materie di studio per allievi ufficiali), la prima valutazione di “attitudine militare”. Il corso subisce una scrematura.
Si prosegue con l’attività sempre più intensa. Arriva il corso “figlio” e diventiamo la “vecchia”. L’inverno, tra una punizione e l’altra, tra poche licenze e molto addestramento, marce faticose e servizi interminabili, è passato. Forse non è stato così breve e semplice, ma di questo parleremo un’altra volta. Ecco, alla fine di febbraio il secondo “compitone” ed i nostri obblighi di studio sono superati, sono ormai alle spalle.
Siamo dunque all’inizio di marzo del 1984. Il comandante di compagnia concede un’ultima licenza a pochi fortunati, prima del campo finale. Un saluto ai cari: la prossima volta che ci vediamo il corso è finito, sarò sottotenente. Che bello, sarò sottotenente! “Ma sarà verò? Ancora non ci credo. Ehi, un attimo, calma! Meglio non pensarci per adesso”.
Già, infatti il corso non è ancora finito, manca l’atto finale, l’epilogo.
La domenica 4 marzo ottengo un permesso giornaliero e con un rapido movimento tattico sono al Pian dell’Alpet, a Ghigo di Praly, provincia di Torino.
Folla di sciatori, spensieratezza. Il sole ormai primaverile fa brillare la neve tutt’intorno. Belle ragazze prendono il sole sulle sedie a sdraio nel terrazzo antistante il bar-tavola calda “La Capannina”, dove io sono decisamente di casa.
Saluto amici e conoscenti, ma sono un po’ distante con la mente: il mio sguardo scruta la montagna in cerca dell’ispirazione giusta. Sono lì in Alta Val Germanasca, vedo le montagne amiche, vedo il Bric Boucie, la Grande Anguille, il Gran Queyron; il mio sguardo spazia rapidamente dall’una all’altra cima che conosco sin da bambino, sotto di me la Pista Verde mi invita ad una discesa spericolata, ma il mio spirito è già proiettato all’indomani, alle montagne della Val d’Aosta.
La sera passo a casa a Torino, saluto mia madre. “Ciao ma’, ci vediamo tra venti giorni. Parto per il campo finale, sono a La Thuile e poi chissà”.
L’autostrada verso Aosta scorre veloce, ma non ho avuto modo di conoscerla a fondo, l’ho percorsa così poche volte.
Rientro alla caserma Cesare Battisti: nome in codice “Charlie Bravo”. C’è fermento, c’è l’aria della grande vigilia, l’atmosfera è elettrica: tutti sono indaffarati negli ultimi preparativi.
Appronto il mio zaino con l’attrezzatura per il campo finale e il corso sci. Preparo anche lo zainetto tattico con generi di conforto e materiale sussidiario vario.
Passando in magazzino, il venerdì precedente mi sono fatto assegnare un paio di scarponi da sci alpinismo, dei San Marco con gambaletto interno in plastica e scafo esterno, sempre in plastica, con ganci di regolazione. Moderni scarponi che combinano buona conduzione degli sci in discesa e possibilità di agevole movimento in salita, per marciare con le pelli di foca. Dovrebbero garantirmi prestazioni migliori dei Vibram in cuoio con lacci tradizionali, che ho utilizzato per tutto il corso. C’è solo un piccolo problema: l’unico numero disponibile è il 39. Io ho il 42: va bene lo stesso, cercherò di adattarmi.
Lunedì 5 marzo 1984 la sveglia suona alle 3.30. Ritiro armi, rapida colazione e poi adunata in cortile in formazione per attendere i camion che ci portano alla Caserma Monte Bianco in quel di La Thuile.
I camion tardano. Parte il primo gruppo. Resto con gli altri in attesa. Parte il secondo gruppo. Siamo sempre in attesa di completare il trasferimento. Albeggia. Attendiamo. Chissà dove sono finiti gli ACM? Sono ormai le nove e trenta quando finalmente arriva il nostro turno. Partiamo.
“Ciao Cesare Battisti, ciao casa”. Vediamo Aosta che si allontana: “torneremo che sarà primavera. E che primavera!”.
Dopo interminabili curve e tornanti ed aver subito un estenuante aerosol di gasolio (non ho mai capito perché i camion militari non hanno lo scarico in alto) ecco La Thuile, tutta coperta di neve. Ripiombiamo nel bianco inverno che avevamo lasciato da un paio di settimane.
Iniziano le attività del campo finale. Molti di noi sono provetti sciatori. Altri un po’ meno. Alcuni non hanno quasi mai sciato. Il capitano Graziano è perentorio. “In una settimana voi sciate, il Col San Carlo ci attende”.
Ovviamente non ci sono impianti di risalita per gli allievi ufficiali. Quindi il Col San Carlo ci attende sia in salita da La Thuile, sia in discesa fino a Morgex.
Già, il campo finale con la prova di sopravvivenza. Ci siamo. Da oggi siamo al campo finale.
Trascorriamo la prima settimana nell’addestramento al combattimento in alta montagna. Proviamo anche l’attacco con gli sci. Che divertimento scendere a rotta di collo sparando con il FAL mentre attacchiamo delle malghe in alta montagna!
La seconda settimana ci dedichiamo al corso sci. Il bel sole di marzo scalda le giornate ed i nostri cuori. Siamo tutti belli abbronzati. Il tempo passa velocemente e ci divertiamo pure. Finalmente ho modo di mettere a frutto il mio brevetto di istruttore militare di sci. Un compagno di corso che non ha mai messo gli sci ai piedi impara rapidamente lo spazzaneve ed in breve tempo è in grado di affrontare agevolmente qualsiasi pendenza. Mi prende in disparte, mi sorride e mi abbraccia contento dalla gioia: che emozione e che soddisfazione, per me!
Il gran giorno si avvicina, il giorno del Col San Carlo. A questo punto non ci sono più scuse, dobbiamo superare anche questa prova.
Mattino presto di martedì 13 marzo 1984. La seconda compagnia è schierata nel cortile della Caserma Monte Bianco di La Thuile, destinazione Col San Carlo.
Nessuno parla, tutti attendono un cenno del “Capo”.
Fissiamo le pelli di foca, serriamo gli scarponi, allacciamo gli sci e partiamo, a passo lento. Il capitano Graziano è in testa alla fila, seguito dal sottotenente Aimone del 110° corso e vicecomandante di compagnia; dietro di loro, i quattro plotoni di allievi ufficiali che compongono il 113° corso.
Io mi trovo in coda, inserito nella squadra soccorso con gli altri istruttori sci: Roberto Caporin, Alessio Zucco e Sante Pierelli.
Per la prima volta sono lontano dall’amico fraterno Fabio Ognibeni, mio vicino di letto della quinta camerata. Fabio è un ragazzo magnifico, una vecchia roccia di soli ventun’anni; con lui abbiamo diviso tutte le emozioni e le difficoltà del corso. Oggi però è lontano: lui, che è un alpinista provetto, affronta la salita con il resto della camerata cinque, col saggio Matteotti, col dottorino Mussano, con Moro la roccia, con il giovane Pastrone, col minuto Peretto, il fiero Olivieri, il mite Muccilli. Io sono lontano da loro proprio in questo momento clou. Ci siamo amati-odiati per cinque mesi; sono stati compagni adorabili e devo molto a tutti loro, ma oggi mi dovrò arrangiare da solo. Com’è strana la vita: ti prepari a lungo insieme ad altri, fai squadra, ed alla fine ti ritrovi inaspettatamente da solo di fronte ad una prova difficile.
Con mia sorpresa trovo che la salita non sembra improba se non fosse per le difficoltà di movimento. Zaino in spalla con tutta l’attrezzatura e guardaroba per l’intero campo finale. Sul davanti, zainetto tattico con elmetto, borraccia, gavetta, badile pieghevole e materiale di soccorso, fucile automatico leggero (“FAL”). Noi della squadra soccorso abbiamo anche dei carichi speciali, tra cui alcune radio RV3 e la barella.
Durante il corso sci avevo avuto la possibilità di usare i miei fidati ATOMIC ARC 207, con cui avevo ottenuto un onorevole risultato al campionato regionale piemontese dell’anno precedente. Oggi invece ho ai piedi gli sci di casermaggio, nemmeno uguali tra loro: uno è un Silvretta, l’altro non lo so, è irriconoscibile tanta è l’usura. Sono sci di frassino, lamine a segmento avvitate, soletta verniciata, decisamente anti-scorrimento, attacchi Kandahar a ganascia rigorosamente “non di sicurezza”, con leva frontale per la tensione del cavo che blocca il tallone.
La salita mette a dura prova l’attrezzatura obsoleta. Le pelli sono di foca naturale e molto stagionate. I lacci di cuoio che le fissano agli sci sono rinsecchiti e si spezzano con estrema facilità.
Durante l’ascesa vedo un compagno che in un tratto difficile angola improvvisamente gli sci e trancia di netto tutti i lacci delle pelli, che si sganciano repentinamente lasciando liberi gli sci. Parte pericolosamente all’indietro. Allertati da una provvidenziale bestemmia, ci gettiamo a riacchiapparlo.
Saliamo lentamente. La fatica è tanta ma le risorse che sentiamo dentro di noi sono enormi. In questi cinque mesi abbiamo imparato che i nostri limiti sono molto al di là di quanto immaginavamo.
Mi stupisco di me stesso per come procedo agevolmente nella salita.
Sono circa le due del pomeriggio quando finalmente mi libero del carico e tiro un sospiro di sollievo. Siamo in cima al Col San Carlo. Che meraviglia! Mi sembra di volare.
Ci accampiamo in ordine sparso. Dal sacchetto viveri tiro fuori un panino e cerco di placare un po’ la fame. Lo spettacolo è maestoso. Un sole splendido illumina le montagne. C’è silenzio intorno a noi. Il gruppo di giovani allievi ufficiali sta per affrontare la “prova di sopravvivenza” ma intanto ha superato la salita al Col San Carlo.
Il capitano Graziano ordina la predisposizione delle trune.
Mi trovo a dividere l’avventura con Lucio Martino e con l’assistente di sanità Properzi.
Cominciamo a scavare e realizziamo un bell’incavo: la neve fortunatamente è resa morbida dal caldo primaverile. Ci procuriamo un po’ di rami di pino da stendere sul fondo per coibentare in qualche modo il basamento. Gonfiamo i materassini e distendiamo sopra i sacchi a pelo: ecco il nostro giaciglio.
Ricaviamo una nicchia laterale dove posizioniamo una candela fissata su un coperchio di gavetta: ecco il nostro sistema di riscaldamento.
Fissiamo sci e bastoni ortogonali tra loro e realizziamo il telaio, adatto a sostenere i teli tenda che ricopriamo di neve. Abbiamo un tetto per la notte.
La costruzione della truna di neve ci ha impegnati allegramente per tutto il pomeriggio, ma adesso la fatica della giornata comincia a farsi sentire. E domani c’è la discesa verso Morgex.
Il capitano Graziano ordina di ritirarsi nelle trune quando il sole comincia a scendere lentamente e la temperatura invece precipita rapidamente sotto lo zero.
Entriamo nella truna e ci tiriamo dietro gli zaini, che costituiscono la chiusura verso l’esterno.
Ci sistemiamo nei sacchi a pelo, insieme al fido fucile.
Una volta distesi, alzando lo sguardo, sembra di essere in un loculo. La larghezza della truna è appena sufficiente a farci stare gomito a gomito. Le pareti sono lucide e umide e le chiazze mimetizzate del telo-tenda che incombe su di noi hanno un aspetto sinistro.
Parliamo un po’, qualche battuta, una riflessione sulla giornata. Il pensiero si rivolge al giorno successivo. La preoccupazione della discesa, l’eccessivo carico, la neve che probabilmente sarà marcia, i tanti giorni che ancora mancano, le destinazioni finali, la vita futura che ci attende, tutta da vivere, colma di promesse ma al tempo stesso densa di incertezze giovanili.
Dal sacchetto viveri escono generi di conforto vari: un panino, una mela, una tavoletta di cioccolato. A poco a poco esaurisco tutte le mie scorte ed il mio sacchetto è ricolmo solo di spazzatura da riportare a valle.
Si fa notte e accendiamo la candela. La temperatura esterna scende a meno venti. Quella interna, invece, è mantenuta intorno allo zero: sono sufficienti i nostri corpi e la candela. “Ingegnoso questo sistema!”.
Decido di rimanere vestito per paura del freddo. Ho il maglione girocollo, i pantaloni di panno al ginocchio e i mutandoni di lana che noi chiamiamo scherzosamente “Versace”.
Un grosso dilemma sono gli scarponi: lasciarli fuori vorrebbe dire trovarli ghiacciati l’indomani. Decido di lasciare fuori gli scafi esterni e tengo ai piedi i gambaletti interni: avrò presto una sorpresa.
La notte scende e il sonno ci abbraccia tutti quanti. La candela si consuma lentamente. In vetta al Col San Carlo, la seconda compagnia riposa meritatamente.
La notte porta via le ultime paure del corso. La candela una volta consumata si spegne. L’incertezza ed il timore dei giovani ragazzi scompaiono all’esaurirsi dello stoppino. Domani sarà un altro giorno, ma anche un’altra storia. Nessuno lo sa ancora, nessuno si è accorto, la trasformazione in uomini adulti si sta compiendo. L’apprendistato è terminato. Si va incontro alla vita, col suo carico di responsabilità, che per ciascuno di noi inizieranno presto con il comando di un plotone alpino.
A metà notte mi sveglio per l’eccessivo caldo. Sono tutto sudato. Avevo tanta paura del freddo, che la prova di sopravvivenza resterà nei miei ricordi come una delle notti più confortevoli trascorse alla scuola.
Decido di fare qualcosa, per non trovarmi in difficoltà l’indomani, con gli abiti madidi. Lentamente, con il poco spazio a disposizione, mi sfilo maglione e pantaloni e li pongo tra l’imbottitura e la fodera del sacco a pelo.
Recupero la temperatura corporea e nel contempo faccio asciugare i miei abiti. “Bella mossa” avrebbe detto il mitico sottotenente Freschi del 109° corso, ormai congedato da qualche mese e tuttavia memorabile per la sua espressione inconfondibile. Faccio tutto giusto tranne un particolare: tra breve mi sarà presentato il conto per questo mio errore, ma ancora non lo so. Mi riaddormento beatamente, quando alle 4 vengo bruscamente svegliato.
Il sottotenente Sartori passa a dare la sveglia a tutti quanti. Sposta gli zaini, infila la testa nelle trune: “Oh, sveglia, sveglia che andiamo!”.
In piedi, si smonta tutto, si riparte.
E’ ancora notte fonda, le stelle brillano nel cielo, l’aria è tersa e la temperatura esterna è -22°. L’ambiente esterno è magico, sospeso nel silenzio assoluto che avvolge la maestosità del paesaggio, ma la nostra condizione non ci consente di apprezzare questi momenti irripetibili.
Mi rendo subito conto che smontare nel buio della notte ciò che è stato attrezzato alla luce del giorno è operazione per nulla facile. Sento Bertolino che “ravana” furiosamente per recuperare il suo materiale, sembra Brontolo in persona.
La mattina sarebbe il momento ideale per le preghiere a Nostro Signore, soprattutto in montagna, ma di quel mattino ricordo diffusamente altro genere d’invocazioni. Tanto, Dio le bestemmie degli Alpini non le sente …
In qualche modo riesco a recuperare il materiale e sono zaino in spalla, zainetto tattico e fucile sul davanti, sci ai piedi e bastoni da sci nelle mani. Tutto bene, si direbbe. Vedo Fabio Ognibeni che mi fa un cenno: “Tutto bene!”.
E’ passata circa un’ora da quando sono uscito dalla truna. Ho reinfilato i gambaletti dei San Marco, tenuti ai piedi durante la notte, negli scafi esterni che avevo relegato all’esterno della truna per questioni di spazio.
Il freddo sta rapidamente abbassando la temperatura delle mie estremità inferiori. Solo a questo punto capisco che aver tenuto i gambaletti ai piedi è stato un errore: l’umidità accumulata nella notte, trattenuta inesorabilmente dalla vile plastica, si sta rapidamente congelando. In breve tempo le mie estremità risultano anestetizzate.
Cerco di reagire, ma non è facile con il carico che ho sulle spalle. Sento i piedi che scompaiono. Stringo i denti, devo farcela, devo farcela: “A Morgex, sono già a Morgex. Forza, vecchia roccia. Forza, forza”.
Non sono il solo ad avere problemi nell'impatto tra gelo e l'umidità accumulata durante la notte.
Il fraterno amico Fulvio Serra mi fa notare che mani gonfie e insensibili, ossa e muscoli intorpiditi e vista annebbiata da un gran pulsare di tempie, sono esperienza comune.
A questo punto meritano una menzione speciale i magnifici guanti in lana e sintetico, color verde naja che abbiamo in dotazione: praticamente una tela abrasiva o meglio una vera corona di spine intorno a mani ottuse dal freddo.
Qui si registra una delle scene peggiori del corso. Per ripartire occorre inevitabilmente manovrare l'attacco Kandahar degli sci in tutta la sua lussureggiante e sinistra brillantezza metallica, per usare la definizione di Serra.
Qualcuno, preso dalla disperazione, tenta di maneggiarlo levandosi i guanti per cercare di disincastrarlo, smadonnando alquanto e insieme lasciandoci attaccato un bel pezzetto di pelle della mano; non per sbadataggine con conseguente pinzatura o graffiatura sulle parti taglienti, bensì a causa del freddo che fa aderire l’acciaio alla carne. Risultato dell'operazione: sangue caldo … almeno!
Partiamo dal Col San Carlo e ci lasciamo alle spalle, oltre alle trune, una parte di recinto dell'albergo Genzianella, bruciato da coloro che, per ripararsi dal fresco “venticello” notturno, hanno pensato di accendere un falò sulla neve.
Il sottotenente Giancarlo Vanz accomoda abilmente le cose con i valligiani, pagando i danni senza battere ciglio. Sorprendentemente, nessuno viene punito, Evidentemente la prova di sopravvivenza è stata superata bene ed il Capitano Graziano è soddisfatto, anche se non lo da a vedere.
La colonna si mette in moto, la discesa sta per cominciare e sta per andare in scena uno degli episodi più memorabili del 113° corso AUC.
Il programma ufficiale prevede di scendere dal colle S. Carlo a Morgex con gli sci, per essere poi trasportati con i camion militari verso Sarre; quindi una “passeggiata ristoratrice” fino a Ville sur Sarre, ove restare per qualche giorno, facendo un pò di "reazione fisica" in quel di Met Bionnaz e dintorni.
Ma le sorprese per i giovani allievi non sono ancora finite ed anzi proprio in quest’occasione impariamo a nostre spese che la discesa presenta di solito maggiori difficoltà rispetto alla salita, proprio come nella vita ordinaria il passaggio dall’addestramento alla pratica – nonostante le ingenue aspettative – registra sempre un netto inasprirsi dei problemi e delle difficoltà da affrontare.
E’ primavera ormai, il sole riscalda prepotentemente il versante alpino e la neve tende a sciogliersi con il progredire delle ore.
Restare in piedi sugli sci su un terreno sconnesso e con neve non battuta, appesantiti da un carico di trenta chili oltre agli eventuali carichi speciali costituiti da radio, barelle, mitragliatori, non è affatto semplice.
Come già per la salita, anche in quest’occasione faccio parte della squadra di soccorso che chiude la colonna.
Il tempo sarebbe anche bello, il sole invitante, ma non si riesce proprio a sciare: neve profonda e molle, oppure scarsa, a seconda dell’esposizione del versante, rendono le operazioni davvero difficili. Ad un certo punto imbocchiamo una specie di strada con grossi curvoni e tornanti che accentuano le difficoltà. Lo zaino ci sbilancia paurosamente e per curvare occorre mettersi a spazzaneve a gambe larghissime. Diverse volte vedo le punte dei miei sci che partono verso l’alto e solo a fatica riesco a governarli. Superata la massima pendenza, il carico imprime un’accelerazione fortissima che non è facile controllare.
Ogni due minuti uno di noi cade per terra. Subito i compagni accorrono e lo aiutano a rimettersi in piedi. Rapidamente scopriamo che il sistema migliore è prendere il malcapitato per lo zaino, sui due fianchi, e tirarlo su di forza. Da solo, nessuno riuscirebbe a rimettersi in piedi.
Dopo qualche ora di pena la colonna è molto sfilacciata e noi della squadra di soccorso rimaniamo distanziati.
Giungo ad un tornate e incrocio Alberto Longhi, “max” indiscussa del corso e futuro medico condotto, che dopo l'ennesima caduta è in preda ad un attacco di nervosismo.
Sollevando lo zaino gli escono da una tasca laterale due picchetti (detti “zufoli”). Li prende e con gesto di stizza li scaraventa lontano, pur di liberarsi di qualcosa.
Gli dico spontaneamente: "Ma … così te li addebitano...". E Alberto, nel
suo dolce accento bergamasco, si volta verso di me e urla con tutta la sua forza, in segno liberatorio: "Ma vaaaa, ma chi se ne fregaaaaa ...". Aveva superato il livello di sopportazione.
La fatica aumenta, ma al tempo stesso cresce in me un vago senso di soddisfazione per la sensazione di avercela quasi fatta: la fine del corso si avvicina in modo inesorabile e mette le ali ai piedi.
Procedo oltre e trovo Guido Rota Baldini, “the voice of 113”, che con la sua splendida voce da basso verdiano ha scandito tutti gli annunci ufficiali del corso. Guido è finito a terra rischiando l’osso del collo, come del resto è capitato a tutti almeno un paio di volte. Lo tiriamo su velocemente e procediamo.
Guido ci informa che il fiero Alessandro Moro si è lussato una spalla nella discesa e tuttavia prosegue stoicamente. “Ci vuol altro a fermare il guerriero Moro” penso.
Poco più sotto Massimo Mauro, sfinito, deflagra dopo una curva. E’ a terra con “pezzi” sparsi per un raggio di almeno cinquanta metri. Passa il sottotenente Vittorio Rossi e gli chiede con grande sagacia e pesante accento lombardo: "Mauro, ca**o fa lì per terra?" Massimo, con una splendida intonazione triestina e una logica stringente: pronuncia una delle battute più famose del corso: "E Dio ..., son caduto!!".
A metà discesa il giovane Nicola Nesi parte improvvisamente ostaggio dei propri sci, supera in accelerazione i compagni ostentando spavalderia e venti metri più avanti si capotta, rimanendo con la faccia nella neve. Luigi Nasi, che già calza le racchette da neve a rischio del carcere militare, si proietta in avanti per raggiungerlo ed aiutarlo a rialzarsi, togliendogli prima lo zaino.
Arriviamo ad un tornantone, dove le difficoltà sono maggiori. Matteo Ricotti, sconsolato, ci dice che a fronte dei piedi che cercano di seguire la curva, gli sci vanno inesorabilmente dritti. Niente da fare, è una faticaccia terribile.
Siamo ormai giunti a qualche tornante da Morgex e la discesa prosegue su un tratto di strada ormai senza neve. Procediamo con gli sci correttamente infilati nei tasconi dello zaino e il passo “pesante” sull'asfalto.
Roberto Caporin ci racconta che, sentendo aria di vittoria e con l'animo lieve di chi ha fatto un ulteriore piccolo grande passo verso la fine del corso, tolti gli sci, si è lasciato andare ad andatura troppo ottimistica. Un tratto in ombra del sentiero, ancora ghiacciato, gli è fatale. Ciò che aveva conservato integro nella perigliosa discesa, grazie alla sua maestria nell’arte dello sci, - per dirla con le sue parole – viene dolorosamente sconsacrato a causa di un miserabile carpiato con triplo avvitamento, che lo fa rimanere cinque minuti buoni senza fiato disteso sul ghiaccio.
Gli ultimi tratti di discesa sono veramente una tortura. Le gambe intorpidite dalla fatica, le caviglie bloccate dagli scarponi ed il terreno duro si ripercuotono duramente sui nostri muscoli e sul nostro spirito, ma ormai siamo in vista di Morgex e già si vedono i camion militari che ci aspettano.
Ritrovo Paolo Scatarzi che arranca faticosamente anche lui con i San Marco rigidi. Alla fine i Vibram si dimostrano scarponi migliori. Morale alpina: non si abbandonano i fedeli vecchi scarponi, compagni di mesi di fatiche, per andare con i primi che trovi e che non hai mai provato sul terreno!
In fondo alla discesa c'è uno slargo con un’officina. Luigi Nasi, preso da un attacco di orgoglio, raccoglie tutte le forze e si proietta verso una bilancia a stadera presente sul posto. Con l’aiuto di due compagni pesa lo zaino completo di sci: peso, calcolato per difetto essendo il contrappeso giunto a fondo scala, 36 Kg!
Siamo finalmente sullo spiazzo dove sono parcheggiati gli autocarri che ci attendono. Salgo rapidamente a bordo e tiro un sospiro di sollievo. Levo il mio sguardo indietro ed ammiro il Col San Carlo sopra di noi.
I commenti sono scarni: la fatica è stata tanta e preferiamo risparmiare il fiato.
Mentre il camion ci porta a destinazione, rifletto. Ebbene, la prova di sopravvivenza è stata superata agevolmente ed in fin dei conti è stato molto, molto più facile del previsto.
In effetti qualunque prova, una volta superata, pare una formalità, proprio perché è stata superata. E allora mi domando: in cosa consisteva veramente questa prova? Penso allora che il difficile sia mettersi in gioco, affrontare una nuova e maggiore difficoltà. Sopravvivere a sé stessi, alla propria inerzia, alla tentazione di adagiarsi, di accontentarsi. Ecco, la prova di sopravvivenza consiste nell’avere il coraggio di non fermarsi, di affrontare la prova successiva, che è sempre più difficile ed impegnativa, nonostante la speranza sia sempre quella di avere vita facile dopo aver scollinato. Purtroppo non è mai così, anzi è sempre il contrario.
Diavolo di una Scuola Militare Alpina, mi hai ingannato: mi hai fatto credere chissà cosa, e poi mi regali uno dei più bei ricordi della mia vita ed una delle più grandi soddisfazioni provate in montagna. Mi hai insegnato a non temere le prove a cui siamo sottoposti ed a cercare di vincere sempre l’innata riluttanza ad osare qualcosa di nuovo, di mai provato. Mi hai fatto capire che quando credi di aver superato un ostacolo, il difficile deve ancora venire.
La colonna dei camion parte in direzione di Ville Sur Sarre, dove ci tratterremo per circa una settimana, accampati in alcune malghe di fortuna, poco distanti dal ristorante Vaudan che diventerà la nostra base operativa nel tempo libero.
E’ ormai notte inoltrata e sono nel sacco a pelo, di nuovo abbracciato al mio fucile FAL. Siamo tutti stanchi ed il sonno non fatica ad arrivare, nonostante la sistemazione impervia. Un leggero vento primaverile porta la temperatura sottozero. Mancano ancora alcuni giorni alla fine del corso e tuttavia “un favoloso scintillio di stelle comincia a brillare nel cielo”. Le stelle del 113° corso stanno ormai sorgendo.
Luigi Neirotti, tenente degli Alpini ed istruttore militare di sci, è stato allievo scelto del 113° Corso AUC della Scuola Militare Alpina di Aosta. Ha svolto il servizio di prima nomina nel Reparto Comando e Trasmissioni della Brigata Alpina Taurinense. Sposato con tre figli, vive a Milano. Avvocato d’affari, è socio di un grande studio legale ed assiste imprese nazionali ed internazionali.
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