La notte della guardia
di Paolo Scatarzi

 

Era trascorso poco più di un mese dal suo arrivo al reparto. Una sera, qualcuno m’informò che l’alpino Mancuso nelle ore di riposo non usciva mai dalla caserma.
– … Anche adesso ’tenente, se vuole, lo trova disteso in branda, a contare  crepe sul soffitto… Comandi…
Ero ancora in divisa, al Circolo. Stemperavo la giornata nel rosso-rubino di un analcolico. Risposi al saluto militare, ringraziando, e mentalmente decisi che avrei fatto due passi nelle camerate, prima di cena. La Guardia montante aveva preso servizio da poco; gli smontanti erano in mensa; il resto della truppa, tranne i comandati ai servizi, fuori in libera uscita già da un po’. Terminai l’aperitivo in un sorso e lasciai il piccolo bar, verso la mia camera.
      Doccia bollente, abiti civili. Poco dopo ero fuori.
La piccola piazza d’armi della Caserma Bernardini era deserta, circoscritta dalla luce dei riflettori notturni. Sul lato opposto al mio, un alpino usciva dalla mensa diretto allo spaccio. SCBT, mani in tasca, sigaretta accesa. Costeggiai l’edificio principale fino alla porta a vetri, che conduceva ai reparti. Due rampe di scale; il corridoio di sinistra, stretto, lungo di finestre da un lato e ingressi alle camerate dall’altro. L’eco dei miei passi calmi a misurare il vuoto e gli ambienti.
Entrai nel penultimo varco, sulla destra.
Lui, mani incrociate dietro la nuca, disteso sopra al terzo castello, non si volse neanche a vedere chi fossi. 
- Che fai ancora qui, Mancuso? Non esci?
      - No. - Secco. Gli occhi fissi al soffitto.
      - Perché?
      - Che esco a fare?
      - Mangi una pizza. Bevi una birra con gli amici. Cambi aria…
      - Amici? E chi ha amici, qui? - pausa. - Non sono mica amici, quelli.
      Misto stridente, curioso, di accento del sud e cantilena nordica.
      E poi ancora:
      - Io non ho amici… - altra pausa, più lunga. - Anzi, sì: uno. Ma è lontano: sta a *****.
      Una mano sugli occhi e un sospiro, prima di tornare immobile.
      Dopo qualche secondo di silenzio, dissi – Vuoi venire con me? Ceno da solo, stasera.
      - No - sempre secco. Ma, a quel punto, abbassò il mento e girò lentamente il capo, a guardarmi negli occhi.
      - Bene. Ciao - replicai, abbozzando un sorriso garbato.
      Girai su me stesso e me ne andai.
      Lui non rispose.
      I miei ventitrè anni, inesperti e limpidi, e i suoi diciannove già contorti di resistenze alla vita.

      L’arrivo in Friuli dell’alpino Mancuso era stato annunciato da una lettera del Comando Brigata, più di un mese prima. Cito a memoria:
      “Oggetto: scaglione reclute numero…, anno… etc. All’attenzione di cotesto Comando si segnala la presenza dell’alpino Mancuso Giancarlo, specializzazione CAV (Conduttore Automezzi Vari), quale soggetto riottoso alla disciplina, poco avvezzo a sviluppare rapporti sociali soddisfacenti, diffidente e chiuso, violento in alcune reazioni con i commilitoni. Viene inviato dal Distretto Militare di ****, Battaglione Addestramento Reclute, alla Compagnia C/C della Brigata Alpina Julia, Caserma Bernardini di Cavazzo Carnico, in destinazione punitiva.” 
O qualcosa di simile.
      Breve riunione con noi Sottotenenti e il Capitano Drusi aveva deciso comunque di affidargli la guida di una AR59, col suo carico di cannone senza rinculo da 106 mm., capo-arma, servente e puntatore tiratore. Ma aveva anche ordinato a me - …mi raccomando, Scatarzi… - di curare il tipo, con attenzione: che gli dessi fiducia e modo di riscattare la pessima fama. Ma poca briglia. Che fossi pronto a prevenire e a …tenere il ragazzo bene sul sentiero.
      Brava persona Drusi. Taciturno. Profondo amante della montagna. Badava al sodo.
     
Mancuso era alto, magro, fronte ampia e ossuta, lo sguardo fulmineo diviso da un naso lungo e aquilino. Si presentò a Cavazzo Carnico vestito di pelle nera,  polsini chiodati, catenelle. Sigaretta nervosa. Stava in disparte dal gruppo. Non parlava a nessuno. Guardava per terra le sue stesse scarpe. Solo ogni tanto, non visto, lanciava in giro occhiate indagatrici e rapide.
Primi giorni tranquilli. Lo lasciai fare. Quiete di studio reciproco.
In aula, lezioni di armi e tiro, era spesso distratto, lo sguardo nel vuoto delle finestre, postura scomposta da ultimo banco, lontana dal ‘qui’, scocciata. Ma quieto. Quando spiegavo movimenti di squadra e di plotone, le insidie del terreno sconnesso a quaranta all’ora - la ’59 sbilanciata di uomini e cannone - lo vedevo farsi più attento. O quando descrivevo i movimenti dei Leopard, le loro velocità.
Nelle attività pratiche era scarsamente formale, ma resistente in montagna; avvezzo al peso sulle spalle, camminava senza storie. Quanto al resto, aveva la stoffa del meccanico di classe e una vera passione per il motore a pistoni. Si gettò subito sul banco di officina, come su un giocattolo. Smontava, calibrava, puliva, rimontava, sempre assorto. Vi passava ogni ora libera da impegni, o da servizi. Spesso solo. In breve il motore della sua vecchia ’59 ebbe un rumore diverso dalle altre, più compatto, tagliente.
Non impiegammo molto a capire che era anche il guidatore più bravo di tutti. Negli sbalzi meccanici sulle gobbe pietrose del Tagliamento - un’arma che copre l’altra in difesa, o in attacco - la vecchia lamiera gommata pareva quasi danzare sotto i suoi comandi tranquilli e decisi, scivolando su schizzi di ghiaia e controsterzi. Aveva ritmo e misura, alla guida, Mancuso. Godeva nella ricerca degli equilibri dinamici. Pareva volare.

Ma il carattere era un disastro compresso: ombre, fantasmi da domare.
Non tardò a rivelarsi.
Roccioso, arcigno, anche nei contatti più semplici,  tagliente. Nei modi e nelle risposte. Un orgoglio appuntito gli impediva la minima cortesia, magari aspra, verso gli altri. Fosse pure un semplice saluto, un cenno di assenso. Altrimenti muto. E solitario.
Non è tutto. Di quando in quando si lasciava andare a esplosioni di collera scomposta. Con chiunque. Per un nonnulla. La sua voce si faceva acuta, il suo fare aggressivo, spesso accompagnato da spintoni, minacce, e tensione di lotta. Scoppi rapidi, poche decine di secondi, prima di un nuovo mutismo impenetrabile. Talvolta reagiva così a un gesto di cortesia ricevuto. Come a difesa di una sfera privata solitaria, fatta di apnea. Fatta di cristallo. Non mollava mai. Né, in certi casi, esisteva minaccia, scusa, o convincimento razionale, che riuscisse a frenarlo.
Qualcuno tra i commilitoni commise l’errore di affrontarlo. Ed ebbe la peggio. Un occhio pesto e uno zigomo gonfio, due cazzotti fulminei. Sette giorni di Consegna Semplice. Successivamente, qualcun altro provò a schernirlo, a isolarlo per la sua estraneità,  più di quanto non facesse da solo. Li separarono in cinque: quattro a reggere Mancuso e uno a proteggere il burlone, terrorizzato. Altri giorni di CS e basta.
Come spesso accade in queste storie, anche Pelleschi, sottotenente più anziano di me, vice comandante di Cp., lo prese di mira. Servizi. Disciplina. Forma. Ispezioni. Strigliate. La cosa fruttò solo risposte strafottenti, seppure più caute, e beffarde. E ancora giorni di consegna.
Non certo un ammorbidimento.

I primi mesi trascorsero con questo peso, ricorrente e gravoso, la miccia sempre accesa. Poi Pelleschi si congedò, con gioia di molti, e insieme a lui un certo scaglione di soldati.
Responsabile dell’addestramento e vice comandante, riorganizzai i plotoni.
 Affidai la squadra di Mancuso al caporalmaggiore Basin, allegro e carismatico, uno dei pochi con cui Mancuso non avesse avuto a che dire. Quando Basin lo seppe, piombò nel mio ufficio a protestare che non voleva il piantagrane.
- Scatarsi, ziocàn, queo xè mato e mi no gò ’a pasiènsa…! 
Gli dissi di provare comunque e la cosa funzionò. Con poche crisi. Basin era bravo. Ogni ordine da lui impartito sembrava un invito giusto a fare le cose.
Ma le cose, per il resto, si addolcirono poco.
Anzi, aumentò la distanza impalpabile tra Mancuso e tutti gli altri.
Che ora lo evitavano.
Vi era qualcosa di penoso e interessante in Mancuso. La sua impenetrabilità assoluta. Un mistero. Vani tutti i tentativi di conquistare la sua confidenza. Di trovare un contatto, qualsiasi, con lui. Sì, qualche piccolo incarico di responsabilità, misurata, lo inorgogliva. Esempio, quando scelsi lui come autista per recarmi a Padova (ordine di Drusi per non so che documenti). Ecco, in quei casi Mancuso si apriva a qualcosa di più. Sorrideva, perfino, qualche volta. Schiarite brevi, tuttavia, di cui si pentiva subito dopo. Soprattutto se approfittavo del momento per parlargli di casa, o di cose private, per provare a capire. Il rientro da Padova fu autostrada e silenzio.
Di automobili potevamo parlare. E poco. Battute rapide, sfuggenti. Automobili e motori lo appassionavano. Il suo desiderio proibito era, a quel  tempo, la Golf Cabriolet: avrebbe fatto carte false per possederne una, con lo stereo. Ma, disoccupato, inseguiva un sogno. Occhi persi al pavimento.
- Ci porti la ragazza, sulla Golf, Mancuso?
- Non ce l’ho la ragazza. Mia mamma ci porto.

La notte della Guardia cambiò tutto.

                                               *****

Nelle sere in cui ero di servizio facevo un gioco con i comandati di guardia.
Non sempre.
Li sfidavo. E loro me.
L'inverno friulano può essere duro. Di notte il freddo morde e la solitudine incrina. I turni di sentinella, nell’altana aperta sul nulla-pece di fuori, sembrano non finire mai. E Morfeo è un serpente silenzioso e infido. Oltretutto, in Brigata si parlava da tempo delle visite, a tradimento, di un Capitano d’Ispezione. All’occhio: prima o poi arriva.
- Non m’interessa se sull’altana portate da mangiare – dicevo, durante la piccola adunata di inizio servizio. – Non m’interessa nemmeno se portate da bere, o la radiolina per stare svegli. Né se fumate. Non devo vedere. Non devo sapere. Non si potrebbe. Volume basso e occhi aperti, ragazzi: quello che voglio - quello che conta - è che stiate svegli. Due ore come civette in caccia del topo. Questo m’interessa. E chi blocca la preda vince il premio.
Iniziai, appunto, per gioco.
Andolli, un anziano, una sera rispose: – Tranquillo ’tenente, non passa nessuno. Niànca tu.
- Ci sto, Andolli – dissi. – Regole: arrivo nel cerchio sotto l’altana? Ho vinto. Mi blocchi prima? Perdo. E mi raccomando - rivolto a tutti - non potete parlare con nessuno, se non per le formule di rito, altolà chivalà eccetera. Nel caso, chiamate il comandante della Guardia, con lui potete. Chi sbaglia paga… Tu, Andolli, stanotte aspettami, che ti vengo a trovare…
La piccola Bernardini era un fazzoletto quadrato di mura. Reparto distaccato.  Quattro altane ai vertici. Poca roba. All’interno, edifici su tre lati; il quarto libero per l’alzabandiera. Tra gli edifici e il muro di cinta pochi metri a perimetro. Ogni notte l’ufficiale di servizio e Picchetto, tutt’uno, doveva eseguire tre ispezioni estemporanee. Firma e ora sulle tabelle, fuori e dentro gli edifici: armeria, uffici, depositi, eccetera. Feci la prima alle undici. Convocato il caporalmaggiore comandante la guardia, mi feci accompagnare. Sentinelle pronte a fermarci. Consegne declamate. Tutto regolare.
Ma alle tre di notte sgusciai fuori dalla finestra della mia camera. Senza scarpe, senza cappello, senza fascia cinturone e soldi nelle tasche. Pantaloni della SCBT e maglione a collo alto. Due salti ed ero panciatterra tra le ’59, allineate sotto la tettoia lungo il muro di cinta, a chiedermi che fare a quel punto.
 Quando venti minuti dopo chiamai il nome di Andolli a voce alta, solo nel buio, ero appoggiato al pilastro di sostegno della sua altana, proprio sotto di lui. Zone d’ombra, fortuna, pazienza, sorpresa: non semplice, ma era andata. Cuore in gola.
Andolli si sporse a guardare sotto, senza riuscire a vedermi – Scatarzi, ziocàne! Come ###… Da dove ###…?
- Hai perso, Andolli.
- Altolà chi va là! – rispose subito lui, e giù un profluvio di imprecazioni trevisane irripetibili.
Divenne “il gioco”.
Andolli dovette difendere l’onore ferito, la sua “anzianità”, soprattutto verso gli Alpini più giovani. Questi tacevano, ma si vedeva che sapevano. Mi chiese subito di essere comandato di guardia appena possibile, appena fossi stato di servizio.
Ripetei, qualche tempo dopo. Con altri Alpini. Fui fortunato e vinsi ancora. Poi ancora, dopo qualche settimana. Andolli non fu il solo a farsi mettere di Guardia. Altri vennero a chiedere - … ma solo se c’è il topo, Scatarzi! Dài, che stavolta ti congelo!

                                               *****

La notte della Guardia cambiò il mio rapporto con Mancuso.
- Se becco il topo, io sparo – mi disse una volta in officina, gli occhi bassi su una candela da smerigliare. – Il fucile ce l’ho per che fare? Guardia, no? Sparo, altro che storie!
- Leggi bene le consegne, Mancuso, e imparale – risposi mentre uscivo – C’è  scritto anche di sparare, ma solo a un certo punto. Sennò sono guai.
Poco dopo, allo spaccio, Basin, che aveva assistito, mi si avvicinò con circospezione – Occhio, Scatarsi, che queo te spara sul serio! Nol xe tuto giusto…
Poche sere dopo, combinazione, eravamo entrambi di servizio, Mancuso e io. La Guardia montante adunata. Lui in seconda fila. Comandai l’ispezion-arm e feci il solito pistolotto di raccomandazioni. Lui mi tenne gli occhi fissi addosso, tutto il tempo. Marcò stretto il mio sguardo col suo.
Quando finii di parlare, qualcuno chiese, sbattendosi sugli attenti:
- Comandi, ’tenente! – Ironico, ma composto.
- Sì, Cusetto.
- G’avemo o no ’l topo in caserma, stanotte? –
Istintivamente il mio sguardo scattò a cercare gli occhi di Mancuso. Ora  inchiodati nei miei. Dritti come lance.
- Non fare lo sciocco, Cusetto – risposi, dopo un momento di silenzio. - Guardate bene fuori, piuttosto, che gira l’Ispezione. A cercare il topo, si rischia di non sentire arrivare il leone! Buon lavoro.
No. Niente gioco quella notte.
Insieme a una caserma-reparto di Carnia, la nostra Controcarri era l’unica che il Capitano d'Ispezione non avesse ancora battezzato. Anche Drusi: – Occhio all’Ispezione, Scatarzi – mi aveva detto, prima di andarsene a casa.

Dopo cena mi recai nel corpo di guardia-carraia. C'era una briscola in sospeso, da qualche giorno, col caporalmaggiore Sonetti, capoposto quella sera. Mancuso già fuori, primo turno in altana Due, ai parcheggi. Telefonai che portassero due caffè dallo spaccio.
Smazzando le carte, Sonetti mi disse di essere: - … ’bastanza tranquillo. Gò una guardia de quei che non dorme da piedi, stasera. Anche le cose, ’tenente… le consegne: tutti le sapeva discreti, quando ho chiesto. Che non se impappìna, nel caso. Ecco… – proseguì, girando la briscola sul tavolo e coprendola di mazzo -  … giusto Mancuso non sai mai se… combina. Mi ha detto “le so e basta'”. Che vuoi che ti dica, Scatarzi…! 
Silenzio e sguardo alle carte.
- Quando torna su, in altana? – domandai giocando la prima.
- Alle undici e mezza.
- Bene. Vieni a cercarmi a mezzanotte, Sonetti, senza che ti chiami. Facciamo il giro, le firme, e chiediamo le consegne anche a lui. Gli altri due giri domani, alle cinque e mezza e alle sette meno un quarto… Gioca. Chi perde paga i caffè.

Dormivo sul divano del Circolo, la tv accesa, quando Sonetti mi venne a chiamare. Mezzanotte meno qualche minuto.
- Hai avvisato le sentinelle? – chiesi mentre mi alzavo.
- No, come mi hai detto. Ma credo che sappiano. Ho sentito Fuser, qui fuori sulla Due, che parlava al citofono. Mi ha visto entrare.
- Meglio. Dov'è Mancuso?
- Alla Quattro, dietro le cucine.
Uscimmo e Fuser ci inchiodò sulla porta – Altolà chivalà!
Rispose Sonetti. Annunciò la mia presenza e autorizzò la sentinella a parlare con me.
Chiesi le consegne e Fuser fu preciso. Nella vita civile era un tornitore. Sapeva quanto utile sia l’attenzione. 
- Bene, Fuser. - Feci un cenno con la mano e ci incamminammo a sinistra, verso l’armeria.
- Firme e controlli dopo – dissi a Sonetti, parlando molto piano. – Andiamo alla Tre, ma non ci fermiamo. Come ci autorizza, proseguiamo diretti verso Mancuso, sulla Quattro.
Sfilammo davanti alle porte vetrate della sala cannoni e dell’officina, quindi  sbucammo sull’angolo della Tre.
- Altolà chivalà!
- Capoposto e ispezione. 
- Avanti.
Proseguimmo dritti di fronte a noi, fino a costeggiare, alla nostra sinistra, l’edificio dello spaccio. Mi fermai poco prima di sbucare sul retro di quello, nello spazio di cinta.
- Appena lui ci vede e ci dà l’alt, tu fermati. Io proseguo – sussurrai a Sonetti - E non rispondergli: parla solo se te lo dico io.
Sonetti annuì.
Oltrepassai l’angolo e voltai a sinistra, uscendo dall’ombra. Sonetti subito dietro. Puntai dritto verso l’altana Quattro, trenta-trentacinque metri davanti a me.
- Altolà… – la voce di Mancuso, leggermente sorpresa.
Sonetti si piantò. Io allungai il passo.
- Chi è? – Uno o due secondi di pausa - Sonetti…? Scatarzi? 
Silenzio. Mancuso si sporse a guardare meglio - Oh! Fermo! Che fai?
Abbozzai qualche passo di corsa, accostandomi all’edificio sulla mia sinistra.
– Altolà, Scatarzi, ti devi fermare! Sonetti, diglielo!
Mi spostai sulla destra, verso il muro, con un taglio veloce, per uscire dall'ombra.
– Sonetti! … Che fa questo scemo? Si deve fermare, diglielo! Sonetti! Che fate! – la voce compressa dall’ansia.
Sempre più vicino. Un altro scarto. Oltrepassai il cerchio giallo dipinto a terra, sotto l’altana, la stessa sulla quale avevo sorpreso Andolli. Raggiunsi la scala di metallo a pioli e cominciai a salirla. Lentamente.
Mancuso si affacciò dal varco di entrata e guardò verso il basso – Minchia fermati, Scatarzi! Che fai! – Ora strillava – Fermati, cazzo, fermati!
Tolse il fucile dalla spalla e lo imbracciò freneticamente, spostando con rabbia la cintura, lo abbassò verso di me e mise il colpo in canna.
Alzai una mano e mi immobilizzai – Mi fermo! – dissi a voce alta. - Alza il fucile! Alzalo! …Alza quel fucile! - Ero col viso all’altezza delle sue scarpe.
Mancuso, gli occhi sgranati dalla tensione, le labbra tremanti, lentamente alzò il fucile.
- Scendo! – dissi. Il cuore a mille nel collo e nelle orecchie – Scendo. E tu non ti muovere. Tieni su quel fucile. – Avevo il fiato strozzato.
Lentamente cominciai a scendere.
- Sonetti! – chiamai senza togliere gli occhi dal fucile di Mancuso - … Sonetti!
- Comandi! – rispose quello, impietrito dall’angolo in fondo.
- Corri a prendere un cambio! Facciamolo scendere! 
Ero a terra. Uscii dal cerchio dipinto di giallo, camminando a ritroso, e mi appoggiai al muro sul retro delle cucine.

Giallo di lampadine vecchie.
Nel corpo di guardia. Mancuso in piedi, la spalla in un angolo e la faccia quasi contro il muro. Al posto di caricamento avevo tolto il colpo dalla canna del suo fucile. Poggiai quello e il pacchetto caricatore sul tavolo.
Sonetti in piedi sulla porta.
- Sonetti, al Circolo, nel mobiletto sotto il televisore, c'è una bottiglia aperta. Prendi quella e due bicchieri dal bar.
Sonetti sparì.
Nessun altro, tranne Vidussi alla Tre, aveva sentito nulla. Avrei parlato anche con lui, dopo.
- Mancuso… - dissi piano. Lui non rispose. - Ohè, Giancarlo…
Silenzio.
- Vieni, siediti qui con me.
- No.
- Le sai le consegne, Giancarlo?
Silenzio. Nessuna risposta.
- Lo sai che dicono le consegne, Giancarlo?
Sempre silenzio.
- Intimare a voce alta “Alto là chi va là” – cominciai pacatamente. - Se l’intruso non si ferma, ripetere l’intimazione. Se necessario, ripeterla una terza volta, aggiungendo la formula “Fermo o sparo”; se non basta, sparare un colpo di avvertimento in aria quindi, se l’intruso ancora non si ferma, sparargli… Te lo ricordi, Giancarlo?
Ancora silenzio.
- Sai che, se tu avessi detto e fatto le cose così, e mi avessi sparato, avresti anche avuto qualche giorno di licenza premio? Lo sai?
Le spalle di Mancuso cominciarono a tremare. Non lo vedevo in volto. Il tremore si fece più forte e lui, una mano sugli occhi, si accucciò lentamente, nell’angolo, cominciando a piangere.
- Sparare dovevo – singhiozzò – ma non volevo. Ho fatto casino, ho fatto, solo casino!
Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai, chinandomi di fianco a lui. Un braccio sulla sua spalla. La testa in basso a cercare il suo sguardo. Un senso di nausea.
Lui, altri singhiozzi – Come faccio a spararti, ma come! Tu sei l’unico buono con me! Tutti addosso mi danno! Pelleschi, gli altri, tutti! Come quando ero piccolo! Non cambia mai niente, non cambia!
- Com’era quando eri piccolo? – chiesi.
Il pianto di Mancuso diventò un urlo rauco, strozzato. Terribile. – Le botte mi davano, gli uomini! Mia madre li ospitava, in casa, e quelli mi davano botte!
- Come, “ospitava gli uomini”? - udii la mia voce tremare - E tuo padre?
- Mio padre non c'è, se ne è andato mio padre! Mai visto! Non esiste mio padre! E quegli schifosi botte! Io piccolo, io, le botte prendevo, e correvo nell’angolo. Botte! Botte! Botte! Le botte che ho preso dagli uomini, io! Mi cacciavano via, per stare con mia mamma! Dovevo uscire, capisci? Via dai coglioni, capisci? Uscire, via! – Ancora un urlo angosciato. - E anche mia mamma mi dava botte qualche volta! Ma lei è buona. Anche quando mi dava le botte piangeva, e io vedevo che è buona! Per me lo faceva, mia mamma, di ospitare gli uomini! E io quando posso gli regalo i soldi a mia mamma, che non deve più vederli quegli uomini là!
A quel punto Giancarlo volse la testa, mi appoggiò il volto sul petto, aggrappandosi con le mani al cotone della mia SCBT, e prese a scuotermi e a urlarmi dentro la sua solitudine.

Del resto, è inutile dire.

                                             *****

Il suo “unico amico” era un sacerdote.
Durante la licenza ordinaria, 10 giorni, che precede il congedo, gli fece fare una domanda di lavoro.
Al rientro in caserma, Giancarlo mi portò una bottiglia di cognac e un biglietto del sacerdote.
“La ringrazio. Giancarlo mi ha parlato di lei. Poco, ma basta a capire.”
Dopo il congedo, Giancarlo cominciò a lavorare.
Acquistò la Golf Cabriolet. Usata.
Me lo scrisse in una cartolina incerta, a Natale di due anni dopo.

 

 

Paolo Scatarzi (fly_scat@alice.it), è nato a Roma nel 1961. Ha frequentato il 113° corso AUC alla Scuola Militare Alpina nel 1983 e prestato servizio di prima nomina nella Compagnia Controcarri della Brigata Alpina Julia, a Cavazzo Carnico. Sposato con due figli, vive a Roma.

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