El Alamein
L’uomo, sui quarantacinque anni, segaligno e vestito da turista tropicale, si accosta e mi sussurra qualcosa che mi sfugge, ma l’eloquenza del gesto con cui mostra la macchina fotografica è chiara: chiede di farmi una fotografia. Ora, lasciatemi spiegare alcune cose. Mi trovo nel Sacrario di El Alamein, progettato e costruito da Paolo Caccia Dominioni, (eroe della Resistenza, in precedenza comandante del 31° Battaglione Guastatori Alpini, e prima ancora del 30° Guastatori del Genio, che proprio a El Alamein con i “Ragazzi” della “Folgore”, con i Fanti della “Pavia”, della “Brescia”, di altre divisioni italiane e tedesche, aveva dato filo da torcere alle truppe di Montgomery, cedendo ai suoi carri solo dopo aver finito le munizioni, viveri e bottiglie incendiarie), dopo un’idea maturata tra Brescia e Padova. L’università di quella città, su sollecitazione del Dott. Moretti, figlio di un reduce d’Africa, sta realizzando un piano per il recupero delle opere belliche dell’Africa settentrionale e si è concentrato sulla zona di El Alamein, proprio perché il padre di Moretti là ha combattuto con i Carri del 132° reggimento Ariete, IX Rtg. Carri M 13/40. L’amico Roberto Viani, insegnante dell’Euroscuola di Brescia e maggiore della riserva qualificata, con trascorsi di leva nelle truppe alpine, è con altri riservisti bresciani l’inventore del progetto “Training day”, che vede da sei anni studenti delle superiori di Brescia seguire allenamenti e misurarsi poi in varie discipline e prove fisiche, non solo per la soddisfazione di dire un giorno “io c’ero”, ma soprattutto per apprendere sentimenti e ideali poco di moda oggigiorno, quali amicizia, cameratismo, amor di Patria, rispetto degli altri, spirito di sacrificio e comunitario. Viani mi ha coinvolto nel suo progetto. Da contatti avuti con il Dott. Moretti, è nata l’idea di far partecipi gli studenti del Training day del progetto El Alamein e così, un bel giorno, ecco il Dott. Moretti a Brescia a raccontare le sue avventure nel deserto e le vicende della seconda guerra mondiale in una serata che ha ammaliato ragazzi e genitori. All’epoca presi contatti con chi di dovere in Egitto, dopo di che un gruppo di diciotto studenti, cinque accompagnatori e due genitori il 12 aprile presero il volo da Malpensa per Cairo. La mattina di martedì 13 maggio, caricati i bagagli su sei fuoristrada guidati da esperti autisti, ci siamo spostati verso El Alamein, inoltrandoci nel deserto. Prima sosta a Qaret el Abd per prendere visione del campo inglese utilizzato dagli italiani per l’ospedale sotterraneo; è il primo incontro con la zona di guerra e i ragazzi setacciano il terreno in cerca di reperti. Naturalmente sono rimasti solo pochi pezzi arrugginiti di scatolette e di filo spinato, ma qualcuno trova qualche scheggia e Luca anche un proiettile di mitragliatrice. Molto presenti, invece, le folgoriti, agglomerati di silice fusa dai fulmini, di forma pressoché cilindrica e di queste raccogliamo vari esemplari. Lasciamo la zona e ci portiamo in pieno deserto, dove allestiamo il nostro primo campo. Le nostre guide dispongono le macchine a U e fissano dei teli tutt’attorno, per creare una specie di sala da pranzo a cielo aperto. Nel frattempo, noi e i ragazzi provvediamo a montare le piccole tende che ci accoglieranno per la notte. La cena, a base di minestra di verdure e pollo arrostito sulla brace (la legna era stata portata su una macchina), innaffiata con acqua minerale e té, risulta molto suggestiva: sono tutti accoccolati sulla sabbia tiepida, qualcuno a piedi nudi, attorno a due bassi tavoli approntati appositamente. Io, con le giunture un poco arrugginite, sto appollaiato su uno sgabello a tre piedi che sprofonda nella sabbia sotto il mio peso, ma almeno riesco a stare in equilibrio e un po’ comodo. Con mia grande delusione, come frutta ci servono delle piccole banane molto dolci, anziché i famosi datteri di cui avevo letto nei resoconti di Moretti, e sarà lo stesso anche nei giorni successivi; imparo così che non è la loro stagione e che da queste parti, vista la scarsa possibilità di conservare i cibi, si consumano di preferenza frutta e ortaggi di stagione, per altro molto abbondanti negli orti attorno alle città. La notte è scesa bruscamente e il cielo si rivela in tutta la sua magnificenza; sembra di poter toccare le stelle con le dita, tanto sembrano vicine. Alla fine ci ritiriamo nelle nostre tendine e, sistemati nei sacchi a pelo, ci addormentiamo sui materassini stesi sulla sabbia, o meglio, tentiamo di farlo, ma il chiacchiericcio dei ragazzi dura per un pezzo, ed è normale, data la situazione così particolare. La sveglia ufficiale mi coglie tra le dune per espletare faccende molto personali che non posso lasciare ad altri, in compagnia di alcuni scarabei stercorari in attesa della materia prima per lo loro pallottole-culla delle uova e di molte chioccioline bianche appese ai rametti di alcuni cespuglietti spelacchiati. Seppellisco il mio prodotto, mi rassetto sveltamente e mi affretto a raggiungere gli altri. Smonto la mia tendina e preparo i bagagli intanto che le guide preparano la colazione a base di té, uova sode, fette di pane, marmellata e miele, il tutto spolverato in pochi minuti dai famelici componenti la brigata. La nuova giornata nel deserto ci porta a visitare la zona tenuta senza arretrare dalla Folgore a Qaret Himeimat, ribattezzata dai folgorini milanesi “Caret dei bei matt”. Lasciate le macchine sulla pista, risaliamo con cautela il costone della collinetta più bassa, sulla quale troviamo le tracce, riportate alla luce da precedenti spedizioni, di postazioni militari. È forte in me la commozione nel calpestare sabbie e rocce che portano ancora il segno degli avvenimenti di sessantotto anni fa; par quasi di sentire i sussurri dei combattenti, le loro risate soffocate nelle lunghe attese sotto il sole, le imprecazioni e gli schiocchi dei colpi d’arma da fuoco durante i combattimenti. Se grande è l’impressione per quanto hanno fatto i folgorini, altrettanto forte è in me la pena e la comprensione per i sacrifici affrontati dagli attaccanti, stesi sulla sabbia o dietro i carri dall’acciaio arroventato dal sole del deserto o dalla benzina incendiata delle molotov, sottoposti al tiro preciso e micidiale dei nostri. È la stessa pena provata tra la sterminata successione di croci del cimitero militare alleato e poi nel sacrario tedesco. Non ho parole, invece, per descrivere sentimenti e impressioni provate al Sacrario italiano, ma ci provo lo stesso. Dopo l’ingresso vicino alla strada litoranea Alessandria-Tobruk, un largo e lunghissimo viale sterrato ci avvicina al Sacrario che si erge possente in lontananza. A fiancheggiare il viale, tra palme ora frondose, una serie di cippi recanti incisi i nomi dei reparti che hanno lasciato tante vite in quelle terre. Mentre percorriamo il lungo tratto soleggiato, è automatico pensare alla guerra nel deserto e ai sacrifici sopportati dai combattenti. Porto con me il Vessillo della Sezione Alpini di Brescia che il Presidente Forlani mi ha affidato, a significare la continuità d’ideali che ci lega ai nostri padri, qualunque divisa portassero e benché non ci fossero reparti alpini a El Alamein, bastò la presenza al comando del 31° Btg. Guastatori del Maggiore Paolo Caccia Dominioni Sillavengo, con il suo Cappello alpino a lasciare il segno della penna. Infatti, un’erma di bronzo su un piedistallo di marmo lo rappresenta con l’immancabile cappello alpino, e ricorda ai visitatori l’opera durata anni per la raccolta dei resti dei caduti e l’erezione del Sacrario in loro imperitura memoria. È appunto qui, mentre gli altri accompagnatori e studenti passano in rassegna le lapidi con i nomi dei caduti o con il semplice scritto “ n. xxx spoglie di caduti ignoti”, che mi ha colto sugli attenti e con il vessillo il fotografo alemanno. Pensieri turbinano nella mia mente, mentre lentamente i ragazzi sfilano e lasciano i loro scritti sul libro della memoria posato su un leggio di pietra accanto alla bandiera Italiana. Il luogo è tenuto in ordine e pulitissimo, come gli altri sacrari, segno di grande rispetto per chi ha perso la vita nell’adempimento del proprio dovere. Ci rechiamo poi al monumento di Quota 33, dove posiamo per l’ennesima fotografia. Attraversando una spianata pietrosa, mi porto con Luca a rendere onore ai caduti della Folgore e della Divisione Brescia ricordati dai cippi lungo il viale d’accesso. (Grazie Luca per essere stato con me in quei momenti; non abbiamo scambiato verbo, ma credo che le nostre anime in quei pochi minuti si siano fuse in una sola). Prima di partire, ho voluto rendere omaggio al piccolo cimitero dove riposano le spoglie degli Ascari Libici che con i nostri soldati hanno combattuto nel deserto, all’ombra della piccola moschea che li ricorda con una lapide dai tanti nomi arabi. Naturalmente il nostro peregrinare nel deserto, oltre a momenti di commozione, ci ha regalato anche ore di sensazioni straordinarie di libertà, di aria pulita, di senso dell’infinito, con quella sabbia che ci circondava a trecentosessanta gradi fino all’orizzonte, appena accennato dal lieve rilievo di qualche duna. Ho anche pregato, nel deserto, come fossi in un’immensa cattedrale, quasi al cospetto del Creatore e, anziché sentirmi piccolo piccolo di fronte a tanto spazio, mi sono integrato in esso quasi a farne parte. Il camminare sulla sabbia o sulle pietraie infinite, dà una strana sensazione di forza; siamo piccoli esseri che pure dominano il mondo. I rilevati degli scavi delle pipe-line che s’intersecano ci ricordano la responsabilità che abbiamo nel gestire quanto la natura ci dona, e quanto minimo sia il nostro incidere su di essa, a patto di saperla rispettare, ma quanto invece possiamo diventare distruttori per cupidigia o stupidità. Giovanni Prestini
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Il Sacrario di El Alamein (link al sito dei Carabinieri del Tuscania) |