Consegne
di Paolo Scatarzi

 

Al tempo m’incuriosì il suo sguardo, così vivo. Immediato.
L’occhio azzurro era fiero, acuto d’indagine, e ciò enfatizzava la compostezza mite della persona, nella sua anzianità. La sua voce garbata, basso-leggera, aveva una lieve infles-sione di veneto. Era educata, calma di domande piene e silenzi, a seguire, in attesa di una ri-sposta dal mio esuberante ottimismo. La posa serena di chi, non più giovane, sa che non c’è alcuna fretta.
Era strano, Vittorio, classe 1911. Capelli canuti su un’anima antica.
Vispo ma calmo. Unico.
Stagliava silenziosamente la sua immagine nel gruppo.
Chissà cosa vedeva in me, l’anziano.
Chissà cosa cercava, ancora.
Intuito, il mio. Incerto. Di ragazzo.

*

Avevo ventuno anni; ero nuovo di zecca, e mi piacque subito la stravaganza di quella insolita attività serale; la dignità di un mio posto preciso tra gli adulti di una storia a me igno-ta. Entrai nel Coro della Associazione Nazionale Alpini di Roma per caso. Vi accompagnai l’amico di sempre, in una sera di nulla da fare. Suo padre era il Presidente del Coro. Cantava-no insieme. Che strano, pensai. Oh sì, bello il lavoro di gruppo; bellissime, soprattutto, certe armonie struggenti, quell’incrocio di suoni che dà tenerezza. Cinquanta voci maschili a intes-sere un’unica passione. O una corale allegria. Forza. Amore. Per me una scoperta. Bello dav-vero. Il maestro del Coro mi vide ascoltare. Mi chiese, durante la pausa, se fossi intonato. Una piccola prova e fui preso. Così.
       Avrei voluto cantare tra i Bassi, magari leggero. Avrei potuto. M’impressionava il corpo vibrante della nota grave, cantata da tanti, densa di voci fumose e solenni. Ma avevo e-stensione vocale e serviva un Tenore Secondo. Vai, Piccolo. Due ore di prove, a sera, Martedì e Venerdì, e mezz’ora di pausa tra quelle. Mezz’ora di chiacchiere vive. I ricordi pesanti dei vecchi, i commenti alla vita ascoltati in silenzio, vino che suona nei bicchieri congiunti, risate, battute. Poi di nuovo cantare.
Guardavo spesso Vittorio durante le prove, poco più in là, in prima fila; lui tra i Bassi Leggeri. In alcune canzoni era come assente, non lì, via da noi. Cantava a tempo, come tutti, ma con l’anima altrove, e non gli serviva guardare il gesto del Direttore. Perché quelle canzo-ni, lui, non doveva impararle: le respirava, insieme all’ossigeno, con lo sguardo lontano oltre la sala di prova; oltre il mare; lontano.
Non capivo, allora. Intuivo un profumo che non sapevo declinare.

*

Passati alcuni mesi, qualcuno disse che il Coro era richiesto per un concerto, nel posto Tal dei Tali. Ricordo che si levarono subito i commenti di tutti: chiacchiere sul dove; chi può venire; quali brani eseguire; l’acustica della sala, o della chiesa, non so più. In tutto questo, il Maestro alzò gli occhi verso di me, con un cenno del mento: “Te la senti?” mi disse, superan-do le voci. Feci un mezzo sorriso. Non sapevo che dire. Il mio primo concerto. Annuii, inde-ciso. Lui si girò verso un altro corista e gli disse, indicandomi a pollice: “Divisa e cappello, viene anche il bocia!”.
Che strano il mio primo cappello. Una fascetta scadente di plastica verde, una penna d’uccello che sale su dritta, un fregio di plastica nera e una forma raccolta, allungata. Da bo-cia, appunto. Il feltro, indomabile. Ma chi conosceva i trucchi a quel tempo? Strano, soprattut-to, averlo tra le mani, o indossarlo da solo, di fronte allo specchio del bagno di casa. L’idea di vestire un segno non tuo, un abito che non ti appartiene. Ma sarà poi vero? Comunque, un simbolo nuovo. Già: un simbolo.
Il più delle volte si cresce senza capire.

*

Circa un anno dopo – il concerto andò bene; ne seguirono altri – venne per me il tem-po della Leva, e qualcuno dei coristi mi disse: “Hai fatto domanda come Ufficiale di Com-plemento? Allora chiedi la Smalp!”.
“ Cos’è la Smalp?”, risposi.
Al Distretto Militare, una persona in divisa, grassa e occhialuta, mi chiese: “Perché proprio gli Alpini?”. Esplorava con lo sguardo un enorme foglio giallo, da riempire, sul tavolo davanti a lui. “La Smalp è durissima”, aggiunse senza alzare la testa.
“ Mi piace la montagna”, risposi stando in piedi. “Sono iscritto al C.A.I. (da due gior-ni)… So sciare bene (sì, insomma)… Canto nel Coro dell’ANA, qui a Roma… Ho una nonna friulana (chissà se fa punti?)”. Il tipo scribacchiò qualcosa e chiuse il foglio, chiamando a vo-ce alta un altro nome. Superai la selezione.
Ricordo la sera in cui entrai nella sala-prove del Coro, sventolando la cartolina, orgo-glioso. Ricordo le feste allegre, di tutti, e i brindisi al bocia, le pacche sulle spalle, e un paio di brani cantati in mio onore, ordine sparso e bicchiere in mano. Ricordo Vittorio e la sua stretta di mano, essenziale, nel chiasso vociante degli altri. Ricordo la sua pausa di occhi negli occhi, la mano serrata alla mia: “Fatti onore. Sii degno del tuo cappello. E fiero, orgoglioso, di ciò che farai in suo nome”.
Passava consegne, Vittorio. Prima di andare.
Sarà sempre vero che tutto avviene per caso?

*

Ci fu Aosta. La Smalp, appunto. Cinque mesi di Scuola Militare, corso invernale. In-tervallo anaerobico di esistenza, in cui imparare il lessico. In cui capire cosa significa essere degno. Follia collettiva in alcuni momenti; ma appello essenziale della propria coscienza, ogni sera: quanta forza morale mi resta? Quanta voglia mi spinge? Non avrete il mio scalpo: sono uno di voi e di qui esco dritto.
Lì, alla Smalp, il secondo cappello. Assai simile al primo, quello del coro. Eppure di-verso, ben più sensato. Mezza penna, Ragazzo, finché non imbracci un fucile per servire lo Stato. Nel frattempo impara a distendere il feltro, a incattivire la tesa, ben larga, per segnarti lo sguardo. E sudaci dentro un po’ di freddo e fatica, per dargli sapore.
La misura dell’Io, e anche oltre, la Smalp: la misura di quanto puoi andare più in là, quando muscoli e testa sono esauriti da un pezzo. Quello sforzo in più che solo una impreca-zione ti consente di compiere. Tanto le bestemmie degli alpini Dio non le sente.
Il simbolo pennuto aumentò di valore. Era già più mio. Non un abito terzo, acquisito da un gruppo: ora un segno del mio tentativo. Fatica; sonno; sudore; zaino che sega le spalle; solitudine; freddo; lontananza. E forza; resistenza; caparbietà; ostinazione. E non essere da meno. Ubbidire, alla Scuola, aveva due facce possibili: quella frustrata, perché senza motivo, e l’altra, con un cappello in testa.
La consegna di Vittorio.

*

Tornai al Coro in divisa da Sottotenente, durante la licenza ordinaria di fine corso. A sorpresa, una sera, piombai a prove iniziate: “Buonasera, Signori, eccomi qua: obbiettivo rag-giunto”. Saluto al cappello. Il canto si ruppe e fui sommerso dalla gioia di tutti. Vidi facce commosse, specchiarsi nel mio giovane orgoglio e non sapere che dire, continuare a guardar-mi in silenzio e sorriso.
E’ un ricordo dolce.
La prova ricominciò e, per una sera, ripresi il mio posto. Ritrovai i brani che già cono-scevo, insieme a qualche altra antica canzone, a me nuova, in vista di un futuro concerto. Poi avvenne un fatto insolito, che non sapevo. Un fatto naturale per tutti, scoprii, fuorché per la mia inesperienza.
Verso la fine delle prove, il Maestro disse: “Vittorio, tocca a te” e si fece da parte, an-dando a schierarsi al fianco dei Bassi. Vittorio si mosse verso il leggio, nel centro; diede il ‘La’; alzò leggermente il braccio e tutti attaccarono, sotto la sua direzione, un brano lento e struggente, che non avevo mai sentito.
Dirigeva deciso Vittorio, con pochi gesti essenziali, e guardava per terra, davanti a sé. Meravigliato, mi volsi a osservare gli altri. Tutti obbedivano attenti a quei gesti diversi, in un unico suono, e mi fu subito chiaro che l’aria vibrava, bene oltre le note, di un senso speciale. Tornai a guardare l’anziano amico, nel centro a dirigere, e scoprii che il suo volto era ora riga-to di lacrime.
Vittorio aveva settantadue anni, cinquanta più di me, e io non conoscevo ancora l’esistenza di un luogo di nome Perati. A Perati, il 20 e 21 novembre di quaranta anni prima, Vittorio c’era. Proprio lì, nel fango, e su quel ponte greco-albanese, che tutti cantavano intor-no a me, aveva combattuto e visto cadere, accerchiato, amici e compagni, falciati. Ora, anche durante le semplici prove, il Maestro si faceva da parte, affinché a dirigere quei quattro minuti di memoria fosse solo Vittorio. Per averli vissuti.
Chiaro che nella sua mente, ogni volta, le note del canto si mischiassero all’odore della cordite, a rantoli e spari, paura e fuga, umiliazione, fiato sudore e strilli, furore adrenalina scoppi e dolore. Occhi di amici che stanno morendo; occhi sbarrati a terrore, sull’ultimo sbaf-fo di vita. Strappi, nella sua anima; mai ricuciti.
Il rispetto; a prescindere. Il senso comune di un tempo storico che non finisce, se non nella distrazione di qualcuno. Il legame ideale di quel momento vissuto, racchiuso in un can-to, con altri momenti e altre canzoni di guerra, ancora più lontani. Altrettanto veri e tremendi. Altrettanto vivi. Monte Nero; Monte Canino; Ortigara…
Ecco, Vittorio.
Quando stringi la mano alla Storia non puoi restare indifferente.

*

Di nuovo ai monti. Entrai nella Caserma Bernardini di Cavazzo Carnico il 2 aprile. Avevo ventitrè anni, la stella di Sottotenente e un Bantam nuovo fiammante sul capo. L’intero reparto era fuori, in esercitazione. Non ricordo, oggi, le poche facce che mi accolsero. La cu-riosità affacciata sui loro occhi, sì. Ero Alpino, tra gli Alpini. Ma portavo il peso di un accento inequivocabile, calcato su ogni parola che avrei pronunciato di lì in poi. Il dilemma se Alpini si nasce o si può diventare fu per me un problema da risolvere subito, agli occhi di tutti, già tanti anni fa. Al tempo, col reclutamento regionale, la casta era chiusa. Chi come me, sfuggito alle maglie, proveniva da altre latitudini doveva mostrare di essere degno, ben più e ben prima degli altri. Magari pessimi, ma col giusto dialetto.
Di fatto, Alpini si nasce o si diventa?
Domande oziose, dell’oggi.
Giorni dopo, In Brigata a Udine, un generale esclamò davanti a tutti: “Oh, finalmente facciamo la conoscenza del nostro alpino terrone!”
Ero più leggero, a quel tempo. Comunque, non avrei potuto che lasciare correre. “Può servire una nonna friulana?”, dissi anche a lui, timoroso. “Le credenziali contano”. Ma co-minciavo a conoscere l’impalpabile diffidenza di chi non ha motivi, né storia. Di chi cerca d’impedire l’ingresso dell’aria chiudendo un cancello a sbarre di ferro. O di chi fa politica. Realtà che sovente mistifica, quando non usurpa, qualsiasi nome. All’ombra di un simbolo. Già, un simbolo. Altro che meriti, o stoffa.
“ Perché, sua nonna è friulana?”
“ Signorsì”.
“ Ah, e di dove, esattamente?”
“ Pontebba, signor Generale”.
Una fulgida carriera.

*

Lavorare sodo, l’essenza del gioco. Che gli Alpini di leva lo sentono, se sei un canta-storie. Il resto, quando è tempo, viene da sé. Anche comandare ha due facce possibili: quella frustrata perché senza senso e l’altra, con il proprio cappello alpino in testa. La consegna di Vittorio. E lui qualcosa sapeva di Comandi assurdi, inadeguati, e di stupidità ostinata e politi-ca. Lavorare con lena e silenzio. Il dolore alle gambe e il sudore che gela, conosciuti alla Scuola, sono grandi maestri. Lena e silenzio. Tire e tas.
Il silenzio che segue una grande fatica riuscita, silenzio e sorriso a occhi brillanti, è l’unico pennello in grado di dipingere una gioia che tutti capiscano. Anche in dialetti diversi. Lo imparai dagli occhi di Drusi, capitano gentile e stringato, in cima al Peralba, d’estate. Por-tammo su tutti, quel giorno, anche Lio, alpino a rilento, che soffriva di vertigini ma non vole-va essere da meno. Alla fine anche lui, in cima alla propria fatica, aveva occhi, sudore e silen-zio illuminati di orgoglio. Foto di Compagnia in mucchio schierato.
Un metro sotto di noi, affacciata sul vuoto, una trincea di sassi e filo spinato di ruggine antica. Insieme a Drusi, levarsi il cappello e pensare l’inverno, l’incertezza e gli stenti della Prima Guerra Mondiale. E pregare in silenzio.
Dare un senso e un significato alle cose. Anche quando sembrano non averne.
Anche alla sfrenata allegria, certe volte. Che è giusta e fa gruppo. E allora il bagno, tutti in mutande, strillando di freddo, in una pozza marmata del Piave, appena sgorgato. O le sere di canti e chiacchiere allegre e guascone, nel bosco di tende da campo in Val Aupa, du-rante la scuola di tiro. I giochi in caserma, le competizioni, le sfide innocenti all’onore di un attimo. Allora la cassetta, verde, di ‘Mine’, in armeria, che contiene soltanto grappe e prosec-chi; o le cene di ‘nonni’ che vanno in congedo, lacrime birra e foto ricordo…


*

Oggi il mio Bantam è lì, al centro della libreria. In mezzo a parole, racconti e pensieri fissati alla carta e per sempre. Ogni tanto lo prendo, lo guardo e lo faccio parlare. Non raccon-ta mai due volte la stessa storia. Il simbolo, se vero e sentito, presiede comunque a un Princi-pio. Alpini è uno stato dell’animo, che attraversa le latitudini. Esistono penne indegne, seppu-re consumate. E Signori Alpini che il cappello non lo indosseranno, purtroppo, neanche una volta. Ma lo portano dentro, honoris causa.
Vittorio è andato oltre. Ha lanciato il fardello dei significati nel ventunesimo secolo, prima di partire. Vi è riuscito da Alpino, senza tante parole. In nome di un buffo cappello, al-tare viaggiante di mille sacrifici invisibili.
Significati che riconosci ovunque. Da una stretta di mano, uno sguardo; da un aiuto di-screto, quando gli altri non vedono. Senza questioni di lingua o di credo. Anche in mezzo a un mondo che cambia.
Tutto il resto è poltiglia.
E non devi finire in un libro, perché sia sancito: è sufficiente guardarsi, tra amici, in piccolo gruppo.

Roma, agosto 2006

PS: i nomi della storia sono, ovviamente, inventati. Ma veri, di tutte le storie, al tempo stesso...

Con questo racconto Paolo Scatarzi ha vinto l'edizione 2008 del concorso nazionale di letteratura alpina 'Alpini Sempre' - sezione Racconto Inedito.

 

Paolo Scatarzi (fly_scat@alice.it), è nato a Roma nel 1961. Ha frequentato il 113° corso AUC alla Scuola Militare Alpina nel 1983 e prestato servizio di prima nomina nella Compagnia Controcarri della Brigata Alpina Julia, a Cavazzo Carnico. Sposato con due figli, vive a Roma.

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