Con lode
di Paolo Scatarzi

 

Poco prima che la ‘vecchia’ del 112 terminasse il corso e lasciasse la Smalp, l’allievo Carlo Spaziato, del 113, fu nominato, dagli anziani, capostecca dei Controcarro.
Una piccola delegazione di congedanti salì furtivamente, un pomeriggio, in seconda compagnia, piombò senza bussare nella sua camerata e, con la velocità e l’efficacia che si conviene agli esperti, effettuò investitura e passaggio di consegne, prima di sparire.
Detto fatto, Carlo si ritrovò confuso, inorgoglito, e con un problema: la custodia e l’occultamento del ‘testimone’ di tanta tradizione.
Si trattava, qualcuno ricorderà, di un bossolo del cannone senza rinculo da 106 mm. Bello e ingombrante.
        Mantenere in ordine l’armadietto, come da illustrazione affissa in bacheca, e al tempo stesso nascondervi cibarie di scorta, una bottiglia, o letture vagamente immorali per ritemprare lo spirito, non era difficile. Imboscare un bossolo di acciaio traforato, largo un palmo e alto circa mezzo metro, sarebbe stato ben più impegnativo. Il valore dell’orgoglio; la tradizione di cui tutti erano a conoscenza; il fatto che i sottotenenti fossero stati allievi prima di lui, non eliminavano il disagio di avere a che fare con un oggetto così scomodo. Soprattutto pensando alle frequenti ispezioni degli armadietti.
Perciò, anziché recarsi in libera uscita, Carlo decise che avrebbe trascorso quella stessa sera in ripetuti tentativi e ripensamenti, alla ricerca della soluzione ottimale.

Capì ben presto che sarebbe stato impossibile nascondere totalmente il bossolo.
L’armadio era troppo stretto per coricare il tubo orizzontalmente, in basso. Diversamente lo si ponesse, in verticale, dietro la diagonale, la drop o l’impermeabile, restava pur sempre un angolo scoperto, dal quale l’oggetto poteva essere visto. Bella scocciatura. 
Oddìo: a pensarci bene, quanti prima di lui avevano già risolto simili situazioni? Sì, insomma: in qualche modo lui pure avrebbe risolto!
A corso oramai inoltrato, Carlo sentiva di vivere con maggiore confidenza certe dinamiche della Scuola. Prese le misure ai ritmi e alle fatiche della vita Smalpina, le paure irrazionali della prima ora erano diventate attenzioni; precauzioni; incerti da affrontare con cautela, più che con terrore. Ostacoli fisiologici, cui applicarsi con ingegno. Cominciava anch’egli a osare una misurata disinvoltura, e soluzioni più “ginniche”, anziché arginare goffamente gli eventi.
…Come ogni ‘vecchia’ che si rispetti.
Prima o poi…

Questa maggiore tranquillità, tra l’altro, aveva già prodotto in lui il risveglio dei richiami di certa umana natura.
Ahimè, l’aveva notato.
I desideri esuberanti dei suoi 22 anni, azzerati nei primi tempi dallo stravolgimento di vita e dalle novità, ora si facevano sentire sempre più spesso, e con prepotenza. “Sei mesi sei” senza coltivare una relazione, senza dedicarsi (pochi i fortunati) alle grazie profumate della ‘morosa, sono una vera tortura.
Per lenire questo dolore almeno in parte, Carlo teneva, già da qualche tempo, incollata all’interno della porta dell’armadietto, la pagina centrale di una nota rivista patinata. Questa ritraeva una vera meraviglia dell’esistenza, distesa su un letto di cuscini violetti. Sorridente. E svestita.
Donna dalle forme levigate e irraggiungibili, ogni mattina e ogni sera, aprendo l’armadietto per cambiarsi, Carlo la salutava. Con lui la salutavano ogni volta i compagni di camerata, inneggiando più o meno decorosamente alle sue grazie inenarrabili. E quella sorrideva in rimando, impudica e discinta. Era un conforto ritrovarla lì. Tutto di lei rammentava che la vita può essere sublime.
Oltretutto, la bella gli aveva presto procurato una certa notorietà di sottobanco, di cui Carlo andava intimamente fiero.
Ea fama vagatur, dicevano i latini.
In mensa, mangiando; in aula di studio; in marcia, anche se col fiatone, oppure al bar, la sera, c’era chi lo avvicinava e con discrezione alludeva all’esistenza di quella foto, ammiccando. Molti gli avevano già chiesto di passare a vederla. Molti entravano in camerata, chiedendo di lei. Di solito a sera, prima del contrappello. “Solo per un momento, dai!”.
Esistono forze ben più potenti di un tiro di buoi.

Venne presto buio e anche quella serata finì.
In fondo, qualche ora trascorsa pensando ai casi propri non era poi male, rifletté Carlo con soddisfazione.
Dopo tutti i tentativi possibili, il bossolo di 106 aveva trovato alloggio definitivo in un angolo a sinistra, sul fondo dell’armadio, semi coperto dalla manica dell’impermeabile. Meglio di così non sarebbe stato possibile.
Mentre il corridoio di compagnia si animava per il contrappello imminente, porte sbattute, i ritardatari di corsa verso le camerate, diede un ultimo sguardo alla sua bella e richiuse l’armadietto.
Si sarebbe affidato anche un po’ alla sorte. L’investitura a Capo-stecca era un fatto stimolante e positivo. Qualcosa cominciava a smuoversi, nell’assurda e operosa immutabilità del corso. Un piccolo gradino raggiunto.
“Sia quel che sia, e speriamo che a nessuno venga in mente di andare a frugare lì dentro”, pensò tra sé, mentre si disponeva sul Riposo, ai piedi della branda.
“Contrappello Seconda Compagniaaaa!”.
                         
        Nei giorni che seguirono, fierezza e vanto convissero in lui col timore costante di un’Ispezione Armadietti più accurata.
Controllava più volte, a ogni passaggio, la bacheca degli annunci per essere sicuro e non farsi cogliere di sorpresa.
Poi i ritmi dell’addestramento, le lunghe ore di studio obbligatorio, i compitoni, i servizi, le guardie e la fatica che sfianca, fecero dissolvere anche la sola idea di quella paura.
La Smalp non ti dava il tempo di coltivare semplici timori.

Di fatto, un pomeriggio, durante l’ora di riposo branda, la porta della camerata si spalancò di botto e il Capitano – fatto eccezionale – fece il suo ingresso lento e deciso, seguito da un Sottotenente.
Gli allievi schizzarono scompostamente dal letto. Il capo-camerata si affrettò a recitare la formula di presentazione, sbattendo tutti sugli attenti. Uno sgabello ruzzolò rumorosamente per terra, urtato dalla foga scomposta.
Ancora in movimento, alla ricerca di un contegno, Carlo vide il Capo dirigersi verso di lui. Inequivocabilmente.
Il Capitano si fermò, infatti, a un palmo dal suo rigido ‘attenti’ e gli intimò di aprire l’armadietto.
“Comandi! Allievo ufficiale Carlo Spaziato, Seconda Compagnia, quarto plotone. Comandi!”
        Merda.
        Con un tuffo al cuore, Carlo si girò, socchiuse la piccola anta e si fece da parte. Il bossolo di 106 ammiccava chiaramente da dietro la manica dell’impermeabile.
Inconfondibili, i suoi buchi sembravano luccicare.
In un singolo istante, l’allievo vide tutto il peggio possibile: rimproveri; cacciata dal corso; la faccia del Generale definire reato l’occultamento di materiale bellico; l’onta di essere ricordato come colui che aveva infangato l’onore di anni. Si sentì perso. Il cuore, dietro lo sterno, batteva cassa.
        Ma il Capitano, lento sadismo, spalancato completamente lo sportello con due dita, si dedicò con attenzione e studio alla bella sorridente sui cuscini violetti. La soppesò a lungo, da capo a piedi. Da cima a fondo. Senza tralasciare una curva né una piega.
Un eterno minuto di apnea e silenzio.
Quindi, lentamente, si volse a guardare l’allievo.
        Gelido, affondò lo sguardo negli occhi di Carlo, scrutandone l’evidente imbarazzo.
        “Stia punito” disse poi secco.
        “…Con Lode”.
        Quindi voltò le spalle e uscì dalla camerata, con la stessa fulminea flemma con cui era entrato.
Seguito dallo sten sorridente.

 

Paolo Scatarzi (fly_scat@alice.it), è nato a Roma nel 1961. Ha frequentato il 113° corso AUC alla Scuola Militare Alpina nel 1983 e prestato servizio di prima nomina nella Compagnia Controcarri della Brigata Alpina Julia, a Cavazzo Carnico. Sposato con due figli, vive a Roma.

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