ADAMELLO una storia che continua...
di Renato Sala
Il primo incontro con l’Adamello fu nell’agosto 1965. Stavo compiendo il mio servizio militare come AUC alla SMA di Aosta ed ero in licenza “3+2”, quando alcuni amici, fra cui Gildo Airoldi, mi chiesero se andavo con loro ‘a fare l’Adamello’.
Il Gildo, tre anni prima, aveva fatto parte delle prime due cordate italiane che avevano scalato la parete nord dell’Eiger: non si poteva rifiutare l’occasione di andare in montagna con lui.
Ero l’unico della compagnia ad avere un’automobile, un vecchio 1100 Fiat. Vincendo le resistenze di mia madre (“Come, sei a militare in montagna, vieni a casa in licenza e vai in montagna?!”), partimmo per l’Adamello.
Salimmo da Pinzolo, Val di Genova località Bedole, e da lì al rifugio Mandrone, per arrivare nel primo pomeriggio al rifugio alla Lobbia Alta.
L’accesso al rifugio dal Pian di Neve era abbastanza agevole: era in legno, con una bella balconata.
Salendo, vedemmo riaffiorare dal ghiaccio i resti di un mulo e parecchi reperti bellici, ma solo vicino alla fronte del ghiacciaio. Il giorno seguente il tempo era mutato ed il ghiacciaio coperto da una fittissima nebbia.
Lasciato il rifugio, tentammo inutilmente di trovare la direzione per il Corno Bianco per salire alla cima dell’Adamello, e dopo più di un’ora di girovagare sul Pian di Neve decidemmo di scendere a valle. Nello scendere sulla morena che porta al rifugio Mandrone, si saltava da un masso all’altro: mi tradì una pietra instabile e feci un bel volo. Riuscii ad aggrapparmi ad un masso, ma una sua sporgenza mi colpì il ginocchio destro, che si gonfiò immediatamente. Eravamo a circa 2700 metri di quota e si doveva scendere ai 1500 metri delle Bedole. I miei compagni mi presero lo zaino e a fatica raggiunsi la macchina, che ovviamente dovevo guidare, essendo l’unico con la patente. Il giorno seguente indossai a fatica i pantaloni, tanto il ginocchio era gonfio, e raggiunsi Aosta. Si doveva partire per il campo autunnale alla Thuile e io non volevo perderlo. Mi presentai al capitano Spreafico spiegandogli l’accaduto:
“Sala, cosa vuoi? Marcare visita?” mi interrogò. Gli risposi che, se mi evitava la marcia da Prè-Saint Didier a La Thuile, in due giorni il mio ginocchio sarebbe guarito. Il buon Spreafico, guardandomi di traverso e con aria di compatimento, acconsentì:
“Salirai con uno dei camion”.
*
Il secondo incontro fu in occasione della manovra a fuoco, da effettuarsi congiuntamente con le forze aeree, proprio sull’Adamello. Era il completamento del campo estivo del Battaglione Morbegno, che dopo il campo fisso al Pian dell’Acla in val Ridanno, Val di Pennes, forcella di Brez, Val di Sole, era stato trasportato a Temù, dove era stata formata una compagnia di mortaisti agli ordini del capitano Bampieri. Il programma prevedeva la salita al rifugio Garibaldi passando per i laghi dell’Avio, un periodo di presa di conoscenza del terreno, il posizionamento del mortai e relativi tiri di prova, ed infine la manovra a fuoco alla presenza di autorità civili e militari. Al rifugio Garibaldi attrezzammo l’accampamento; rifiutai l’offerta del Capitano di dormire nel rifugio e con otto teli tenda realizzammo un riparo, di grandezza sufficiente per contenere le armi e quattro persone.
Prima di erigere la tenda, dato che il terreno era sconnesso, creammo un pianoro con il fondo di pietre, a mo’ di palladiana. Dopo due giorni si doveva decidere dove posizionare i mortai. Si esaminava la composizione del terreno su cui si sarebbe dovuta svolgere la manovra; dal momento che il Capitano Bampieri era indeciso, io proposi:
“A punta Venerocolo, così ci godiamo tutta la manovra a fuoco”.
“E chi ci porta fin lassù i mortai da 120?” replicò il Capitano.
“Non si preoccupi,” risposi prontamente, “mi prendo un pezzo di mortaio in spalla e, stia tranquillo, i miei mi seguono”.
Cosi fu deciso. Il giorno seguente salimmo con i mortai a Punta Venerocolo senza particolari difficoltà e creammo delle piazzole per i mortai.
Lo spettacolo era affascinante! Sotto di noi si estendeva il ghiacciaio dell’Adamello, dalla Lobbia Alta, al Dosson di Genova, Punta Cannone, il Corno Bianco. A comandare la batteria di mortai arrivò il tenente di firma Corvo, il quale diede le coordinate, l’alzo e la carica aggiuntiva per eseguire i primi colpi di piastra. Mi accorsi immediatamente che gli ordini erano completamente errati, e che i colpi sarebbero caduti non sul Dosson di Genova, bensì sulle pendici di Punta Venezia, attorno alle quali stavano esercitandosi gli assaltatori.
Mi ordinò di fare eseguire i tiri di piastra.
Gli feci presente che coordinate, alzo e cariche aggiuntive erano errate.
Alle mie osservazioni si alterò, com’è consuetudine di alcuni ufficiali di carriera, e mi ordinò categoricamente di far eseguire i tiri di piastra.
Al mio netto rifiuto, mi minacciò il deferimento alle autorità militari per insubordinazione e per non aver eseguito un suo ordine. Io gli risposi di fare come voleva, ma un ordine cosi scellerato non lo avrei mai eseguito, ed abbandonai la posizione.
Furente, assunse il comando della batteria e diede ordine di far eseguire il primo colpo di piastra, che cadde proprio dove avevo previsto: sulla parte terminale di Punta Venezia, sotto la quale stavano sbalzando i fucilieri. Per il Santo Protettore dei militari non accadde nulla: fosse caduto solo dieci metri più a valle, sarebbe stata una strage!
Dal comando, che era a passo Brixio, arrivò l’ordine di sospendere i tiri. Alla radio sentii alcuni commenti di ufficiali superiori che mi fecero accapponare la pelle: “Avranno sbagliato l’azimut rete”.
Chi si intende di tiri con secondo arco può comprendere l’incompetenza di una tale affermazione. Ed il Tenente Corvo? Sparito! Non lo rividi più, né al Garibaldi né altrove - che fosse un fantasma?
Portammo i mortai al passo Brixio e rientrammo al Garibaldi. L’indomani era il grande giorno, quello dedicato alla manovra! Al Rifugio Garibaldi erano arrivate le autorità militari e civili ed… anche la figlia dell’Onorevole Moro.
Il cielo sereno della sera si rannuvolò rapidamente e nella notte caddero 70 centimetri di neve. Sotto la grande tenda ci demmo i turni per tutta la notte, per evitare l’accumulo di neve ed il conseguente crollo della tenda (ciò che accadde a parecchi che non avevano attuato tale accorgimento).
La manovra fu sospesa e come da copione militare il programma del giorno seguente fu di scendere a valle. Bisognava recuperare i mortai, intanto il tempo non solo non era cambiato, ma addirittura peggiorava, con una tormenta di neve che non dava tregua. Ma l’ordine era di recuperare i mortai - e gli ordini non si discutono! Partimmo per raggiungere passo Brixio sotto un tempo veramente inclemente: le giacche a vento della naja erano rigide come fossero di cartone, e... scordavo di chiedervi d’indovinare con che materiale viaggino in estate gli alpini...
Nel salire creammo un vero e proprio sentiero, profondo nella neve. Non ho mai sentito tante bestemmie come in quel giorno! Come Dio volle raggiungemmo il Passo, oltre il quale stavano i mortai: riuscimmo a localizzarli grazie alla bocca di fuoco, che spuntava per cinque centimetri dalla neve... Vi fu un attimo di sospensione, durante il quale nessuno sapeva cosa fare. Scesi presso i mortai e incominciai ad estrarli dalla neve, che era soffice, di modo che quindi l’operazione non presentò particolari problemi. Formai il mio plotone mettendo in cordata un portatore robusto, e un altro alpino a far da sicurezza. Io mi posizionai per secondo, dietro al caporale Piantoni. Eravamo pronti a risalire il Passo, per poi iniziare la discesa sulla vedretta che porta al Garibaldi; ma il primo della cordata non si muoveva. Gli diedi l’ordine di iniziare la salita, ma mi fece notare che vi era una persona proprio in cima, che ostacolava il passaggio. Mi misi ad urlare:
“Si levi da lì, non vede che gli uomini sono carichi!?”
Si spostò immediatamente e noi iniziammo la salita. Quando fui alla sua altezza, lanciai un’occhiata per vedere chi fosse: era il Generale comandante! Naturalmente feci finta di nulla.
Nello scendere dalla vedretta, a causa del continuo passaggio di alpini, il sentiero era sprofondato fino al giaccio, il che ci procurò non pochi problemi. Ad un certo punto un alpino con un carico pesante scivolò, trascinando gli altri: eravamo quasi al termine della vedretta, ma il pericolo che qualcuno si facesse male rotolando con le armi era concreto. Fortuna volle che chi portava la piastra ricevette un strattone tale, che volò gambe in aria e ricadde sul dorso, in modo che le punte della piastra di conficcarono nel ghiaccio, bloccando in tal modo la caduta dell’intera cordata.
Decisi che era inutile rischiare: scelsi i due alpini più prestanti, ci slegammo, mi presi in spalla la piastra e insieme a loro, senza altre conseguenze, raggiungemmo il rifugio Garibaldi. Nel primo pomeriggio il cielo si era completamente rasserenato e mi preoccupai per la discesa del giorno seguente, specialmente per il primo pezzo di sentiero, denominato “il calvario”, nome che di per sé dice tutto...
Radunai il mio plotone e dissi:
“Siamo tutti stanchi, abbiamo già avuto una giornata pesante, ma se guardiamo a domani può essere ancora peggio: si sta rasserenando, e stanotte gelerà. Sarebbe opportuno approfittare del bel tempo: ci carichiamo sulle spalle le armi, io mi prendo la mia parte, scendiamo fin sotto “il calvario” e piazziamo le tende, per le armi e per due volontari che si fermeranno di guardia. Così domani mattina, quando ci svegliamo, facciamo tutto con calma e quando scendiamo troviamo già i muli pronti”.
Si offrirono due volontari e cosi facemmo. Mentre iniziavamo la discesa incontrammo il Capitano Pellatin, il quale mi apostrofò:
“ Sala, dove va con quest’allegra compagnia?”
“Porto le armi sul pianoro prima del ‘calvario’: stanotte gela e domani scendere sarà dura.”
Mi rispose che non c’era da preoccuparsi, che “domani è un altro giorno e si vedrà”. Il mattino seguente fui svegliato da un richiamo perentorio:
“Sala!”. Era il capitano Bampieri. “Sala cosa fa, dorme? Abbiamo bisogno...”
Non lo lasciai terminare:
“Ma Signor Capitano, terminata la manovra, l’istruzione era che la compagnia di formazione era sciolta, ed ogni plotone era indipendente e doveva raggiungere la base a Temù.”
“Volevo sapere se aveva bisogno di aiuto” mi farfugliò.
“No grazie! Buona giornata Signor Capitano.”
Smontate le tende, facemmo colazione con calma; scendemmo al pianoro in cui avevamo lasciato le armi, dove ci aspettavano i volontari con i muli già carichi e pronti per la discesa (che presentava un passaggio pericoloso, con un ponte a ridosso della parete fatto di tronchi marci). Trovammo dei tronchi sani, li gettammo sopra quelli marci e riuscimmo a passare.
Arrivammo nel primo pomeriggio a Temù, perfettamente inquadrati, con le facce riposate… e con il nostro Capitano Vidulich, orgoglioso del suo reparto, a fianco degli ufficiali superiori. Ed il Capitano Pellatin svegliò i suoi uomini alle cinque (sentimmo le sue urla mentre ci godevamo il caldo del sacco a pelo), li costrinse a scendere carichi lungo il sentiero ghiacciato, perse due muli sul “calvario” (così mi dissero) e, ironia della sorte, dovette rifare il ponticello su cui noi eravamo transitati. Arrivo a Temù a sera, con la compagnia sbandata e fisicamente distrutta. Lo cercai in caserma a Vipiteno, ma evitò di incontrarmi. Peccato, avevo qualcosa da dirgli...
*
Il terzo incontro con l’Adamello fu più piacevole. Con tre amici decidemmo di salirlo da Temù, raggiunto il Rifugio Garibaldi. Il giorno seguente partimmo alle cinque, passando per il Passo Brixio. Mentre ci avvicinavamo al Passo, notai che la vedretta era piena di massi scaricati dalla montagna. Sebbene l’ora non fosse di quelle calde, che provocano il distacco di materiale, per prudenza puntammo diritto verso la parete, salendo un dosso privo di massi. Stavamo salendo, quando la nostra attenzione fu richiamata da un rumore sordo: un masso, fermo sopra il sentiero che avremmo dovuto percorrere, iniziò a scivolare a valle e, superato il sentiero, si schiantò contro una roccia sottostante, disintegrandosi: aveva le dimensioni di una grossa autovettura.
Rimanemmo scioccati in silenzio per alcuni minuti, pensando alla fine che avremmo fatto se fossimo stati sul sentiero. L’ascensione continuò senza problemi e, dopo aver raggiunto la vetta dell’Adamello, percorrendo la stessa via, ridiscendemmo a valle.
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Il quarto incontro fu in concomitanza col “Pellegrinaggio Alpino all’Adamello” del 1984. Ero in compagnia di mia moglie Biagi e dei miei figli Laura e Daniele, di 12 e 9 anni. Il punto di ritrovo era a Temù. Il programma prevedeva il pernottamento al rifugio Mandrone, la salita alla base del Passo Brixio, dove si sarebbe tenuta la cerimonia con la partecipazione dei soldati tedeschi. Quell’estate il ghiacciaio aveva reso le salme di tre soldati austriaci. Dopo la cerimonia, si sarebbe scesi a Temù passando dal rifugio Garibaldi.
Dopo aver raggiunto con dei pulmini il passo del Tonale, salimmo in funivia al Presena. Da li percorremmo il sentiero che, passando per il Passo di Marocaro, arriva al rifugio Mandrone. Durante la notte però il tempo si guastò e l’organizzazione decise che un gruppo di persone non salisse alla cerimonia, ma raggiungesse il Garibaldi rifacendo il percorso inverso fino a Temù, per poi risalire con altri mezzi la valle dell’Avio, da cui raggiungere il Rifugio Garibaldi. Fra questi ovviamente vi era la mia famiglia.
La suggestiva cerimonia ce la raccontarono gli altri... Per i miei figli fu comunque una bella esperienza.
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Il quinto incontro è avvenuto grazie all’amico Piergiorgio Valli. Mentre da casa mia salivamo al San Genesio per partecipare alla manifestazione organizzata dagli alpini della Bassa Brianza, ed in particolare dal gruppo Alpini di Olgiate Calco, mi propose di partecipare al 43° pellegrinaggio all’Adamello. Io accettai con entusiasmo.
Giovedì sera, 27 luglio, arriviamo con il camper a Pinzolo, e vediamo in fondo al paese dei camper parcheggiati. Non mi chiedo se si tratti del posto giusto, e mi infilo nel parcheggio: sono le ventitrè. La mattina seguente siamo alla punzonatura prima delle sette: incontro Paolo Mantegazza e Francesco Nanotti del Gruppo Alpini di Galbiate. Ci eravamo sentiti per telefono prima di partire, ed avevamo concordato che il vessillo sezionale l’avrebbe portato il più giovane, cioè il Mantegazza. Il Paolo non solo si è portato il vessillo sull’Adamello alla Lobbia Alta, ma era presente in tutte le manifestazioni, mettendo sempre il prima fila ed in bella mostra il vessillo di Lecco. Io ero iscritto con la sezione di Trento, con la 2° colonna che saliva dal Mandrone, loro con la sezione di Brescia, che saliva dal Garibaldi: ci separammo. Alle otto un pulmino ci portò in val di Genova fino alle Bedole e da li iniziò la salita al rifugio Mandrone. Ad un certo punto della salita, prima della fine del bosco, sento una voce che mi pare familiare: è il Daniele Beretta di Lomagna, che, stanco per aver girovagato sull’Adamello per due giorni, scende a Valle.
Arrivato al Rifugio Mandrone e guardando verso l’Adamello, vedevo un ghiacciaio che per nulla assomigliava a quello visto 41 anni prima: non vi era più il fronte che arrivava a valle, bensì una cascata. La sorpresa fu ancora più grande nel constatare, il giorno seguente, quanto il ghiacciaio si f osse ritirato: era sparito quel meraviglioso Pian di Neve che ti accompagnava dal Passo Brixio fin quasi alla Lobbia Alta: quanto rimaneva del ghiacciaio stava vomitando tutto ciò che l’uomo vi aveva portato: persino il corpo mummificato di un cane.
Si saliva lentamente in cordate di 4 persone, con i ramponi. L’Adamello è una montagna facile, ma è giusto riservarle un minimo di prudenza. Con noi era salito anche un prelato, che celebrò la Santa Messa sull’altare dedicato a Papa Giovanni Paolo Secondo. Questo prelato alla fine scese, in cordata e con i ramponi ai piedi, fino al Mandrone. Era il Vescovo di Trento!
Nel salire in silenzio sotto una leggera e fastidiosa pioggerellina, che ci accompagnò per tutta la giornata, a noi pellegrini (quasi turisti) veniva spontaneo pensare che calpestavamo quelle stesse nevi, sulle quali una generazione di italiani e di tedeschi si era consumata in una durissima guerra di posizione. Di tutto ciò che l’ingegno e la caparbietà umana aveva saputo costruire e trascinare fin lassù, non rimanevano che rottami, centine, filo spinato, ovunque si guardasse, quasi che la montagna ferita stesse scaricando contro di noi tutto ciò che non le apparteneva.
Eppure il sacrificio di quegli uomini non va dimenticato. Il dimenticare è come morire e se non si vuol morire si deve continuare a ricordare, soprattutto chi si è sacrificato per noi.
Il giorno seguente, a Carisolo, la cerimonia è stata toccante, in una splendida cornice con un sole che coceva. Toccante per la deposizione delle corone di alloro agli alpini e ai soldati tedeschi, per la predica del Cardinale, per la sentita partecipazione di alpini e di tanta gente.
Era la volontà di ricordare, attraverso l’amore che la gente di montagna ha per un luogo che ha visto così tanto sacrificio, attraverso l’amore che il valligiano (e chi vi sale) riserva alla sua montagna.
Arrivederci Adamello, all’anno prossimo.
AUC Renato Sala – 39° Corso.
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