L'uomo che ride
di Danilo Dal Monte

A.S. ovvero ... Ante Scriptum
Tra le foto circolate nelle settimane che  hanno preceduto il nostro incontro di ex AUC del 48mo corso ad Aosta, ce n'è una scattata a Quota 801 e riguarda anche me. Vedendola mi sono subito riconosciuto: sono l’ultimo a destra, senza berretto, con la faccia stravolta e lo sguardo disorientato. Tutti gli altri non erano della mia squadra. Io stavo lì chissà perché, chissà  perché  avevo portato la radio più pesante fin lassù. 
La foto citata ha richiamato in me ricordi dei primi due mesi del corso AUC e solleticato la fantasia, perciò ogni accostamento di personaggi o fatti  del presente racconto  a personaggi o fatti reali è del tutto arbitrario e fuori luogo. L’eventuale somiglianza a personaggi o fatti reali è frutto di involontaria casualità. L' intento è stato quello di rendere il clima e le impressioni di quel primo periodo del corso.
Danilo Dal Monte

Erano passati pochi giorni da quando avevo messo piede nella caserma “Cesare Battisti” di Aosta, precettato per il corso Allievi Ufficiali di Complemento, ma abbastanza per capire che quello  non era il posto per fare sfoggio di titoli o di particolari attitudini che non avessero stretta attinenza  con le attività del corso. Correva l’anno 19…, sul finire di un torrido mese di luglio.
“In questo ambiente meglio non farsi notare”, mi dicevo, “conviene passare inosservato, possibilmente concludere il periodo da sconosciuto”.  Per fortuna questo lo avevo appreso a spese altrui, uno dei primi giorni.
Eravamo tutti reclute, schierati in cortile sull’attenti, ben “allineati e coperti”.
Per dare maggiore solennità  all’evento il caporale si rivolse a noi  con voce stentorea scandendo le  parole ad una ad una: “Ho bisogno di volontari”, disse, “per un lavoro piuttosto delicato. Preferibilmente geometri o architetti”. Nessuno di noi sospettò che quelle lunghe pause, che intercalavano la sua comunicazione, fossero in realtà sonore risate, trattenute a forza in fondo alla gola. Per qualche minuto la compagnia rimase compatta, irrigidita sull’attenti. In quei momenti ognuno di noi stava pensando che quella era una straordinaria occasione per defilarsi da una routine che già dalle prime avvisaglie non prometteva niente di buono.
Alla fine però, piano piano, alcuni uscirono dai ranghi, accompagnati dall’invidia generale; con quel fare, timido e altezzoso insieme, di chi è  consapevole del valore di certi titoli, che fanno la differenza e ti sollevano di slancio sul grigiore della massa.
Il graduato si rivolse allora al gruppetto dei “volontari” per chiedere conferma dei diplomi; avutane risposta affermativa, ordinò: “Allievi, di corsa a procurarvi tutto il necessario per la pulizia dei cessi, che sarà compito vostro per l'intera settimana!”. Ovviamente il nuovo incarico non andava in sostituzione di altre incombenze, ma costituiva una “graziosa” aggiunta a tutto il resto...
A quel punto l’intera compagnia ebbe un sussulto quasi impercettibile, reso manifesto dal luccichio degli occhi; però silenziosissimo, onde evitare di occupare il posto di qualche fortunato vincitore del concorso per le pulizie.
In tal modo la prima lezione sul  concetto di “volontario con titoli” risultò chiarissima a tutti, andandosi a radicare nella mente come una categoria cognitiva, applicabile alle più svariate, future situazioni.
Qualche giorno dopo, quando il solito caporale passò per le nostre camerate chiedendo se qualcuno fosse in grado di dare qualche ripetizione di francese alla figlia liceale di un colonnello, da qualche settimana trasferitosi ad Aosta con la famiglia, a nessuno passò per la mente di rispondere. Ciononostante, di lì a poco, fui richiamato dal caporale che mi ricordò il mio status di laureando in lingua e letteratura francese e mi comunicò senza altri preamboli che il pomeriggio del giorno seguente dovevo recarmi presso l'abitazione del colonnello.
Mi adeguai a quella ingiunzione, ma non prima di aver tentato di scansarla. Feci presente che, non possedendo il dono dell’ubiquità, tale incombenza mi avrebbe sottratto a tutte le esercitazioni pomeridiane (cosa che non mi dispiaceva affatto), ciò che avrebbe potuto destare qualche malumore. Anche se il caporale mi rassicurò sul punto, la sola idea di finire in casa di un colonnello e di uscire così allo scoperto contravvenendo alle modalità comportamentali che mi ero imposto, mi turbava non poco. Ma gli ordini erano quelli e per giunta inappellabili. Così, il giorno dopo, puntualmente alle tre del pomeriggio, suonai alla porta del colonnello.
                                         
     *****

Venne ad accogliermi una gentilissima signora, che dopo le presentazioni di rito mi fece conoscere la figlia, una bella ragazza bionda dal sorriso smagliante. Le due donne erano le prime autentiche figure femminili che incontravo dopo poco più di un mese di segregazione in caserma: una vera eternità, durante la quale con fatica andavo imparando lo spirito di soggezione nei confronti di chi esibiva mostrine o stellette e la funzione principale dei tre grandi cortili interni, dove la sosta, il conversare con qualcuno, o il semplice passeggiare erano azioni assolutamente proibite. La presenza degli allievi nei cortili nei rarissimi momenti di riposo era ammessa ad una sola condizione: attraversarli di corsa come pazzi, fingendo una meta che non c'era. Anche per questo i cortili, in assenza di truppe schierate, apparivano pressoché deserti.
Per la verità durante quel mio primo soggiorno aostano avevo avuto modo di intravvedere altre due creature femminili. La prima fu la sarta della caserma, alla quale dovetti far ricorso per restringere i nuovi pantaloni dono dell'esercito italiano, sproporzionatamente inadatti alla mia taglia. La femminilità di costei era  deducibile unicamente da un vistoso monile, che portava sempre appeso al collo forse per facilitare il riconoscimento del davanti dal retro della sua persona, operazione altrimenti impossibile.  La seconda si materializzò improvvisa come un’apparizione, al rientro da una  marcia allucinante. Qualcuno  vide - o credette di vedere, considerata la distanza del soggetto - affacciata ad una finestra dello stabile antistante la nostra camerata, una signora un po' attempata, in déshabillé data la calura e comunque a mezzo busto. Ma tanto vale, echeggiò un urlo: "donna nuda!" E tutti subito a correre alle vetrate della camerata agitando le braccia, facendo segnali un po' sconci, accompagnati dall' immancabile corteo di lazzi.
Ma, tornando a quella splendida creatura bisognosa di lezioni di francese e alla di lei madre, fu per me lo stesso che entrare in una favola. Come d’incanto mi ero lasciato alle spalle la caserma, dove ero rimasto rinchiuso dal giorno del mio ingresso, salvo le uscite per le esercitazioni. Queste, del resto, non costituivano certo occasioni per visitare la città di Aosta e i suoi dintorni, così ricchi di storia e di monumenti, ma erano marce quotidiane fino a Pollein, per finire confinati in una triste brughiera deserta e polverosa, dove passavamo il tempo impegnati in sollazzi quali lo “sbalzo”, il “passo del leopardo”, il percorso di guerra, il lancio di bombe a mano, la simulazione di un assalto e così via guerreggiando. Ogni tanto, come diversivo, c’era qualche lezione sul modo migliore di sbarazzarsi di una sentinella nemica colta alle spalle, di sorpresa, con l’uso della baionetta o con il semplice strangolamento, ad evitare pericolose grida. Insomma, attività che comparate alla mia passione per le lettere e la meccanica unite all'orrore per il sangue foss’anche nemico, concorrevano a sprofondare il mio animo in una cupa tristezza.
Tra un’esercitazione e l’altra, ad evitare che qualcuno preso dalla stanchezza provasse il desiderio di sdraiarsi o anche solo di sedersi, schierati in  fila orizzontale, ci rilassavamo nella  raccolta delle foglie, che un autunno precoce si divertiva a far cadere copiosamente  subito dopo il nostro passaggio.
Benché fosse trascorsa qualche settimana appena, mi sembrava tuttavia che un’ eternità mi separasse dal mondo “borghese”, lo stesso in cui ora stavo rimettendo piede. Tutto mi appariva  irreale! Proprio non riuscivo a capacitarmi di quella nuova situazione. Avevo l’impressione  di essere “evaso” dalla caserma, dove fin dal primo giorno ero stato alla mercé della volontà altrui, senza un attimo di tregua, fino a percepire me stesso come un essere diverso da me, sempre “agli ordini” di qualcuno che richiamava le mie innumerevoli inadeguatezze ai comportamenti d’ordinanza, privato persino della libertà di fare i minimi spostamenti in modo normale, dato che da qualche angolo, immancabilmente, un invisibile “grande fratello” mi urlava dietro “allievo, di corsa!”, oppure, “allievo, vada subito a cucire le sue tasche e torni qui entro cinque minuti per il controllo!”. Questo, solo per aver tentato di mettere le mani in tasca in un raro momento di riposo.
A tutti quegli ordini che piovevano da ogni parte ormai non corrispondeva il benché minimo gesto di rifiuto o di ribellione, nemmeno mentale; al contrario, seguiva una immediata, meccanica risposta sull’attenti, urlata a squarciagola: “Signorsì, comandi!”.
Era la resa definitiva: non ero più io, ma uno strumento in mano d'altri.
E adesso eccomi qui, col mio buffo cappellino da elfo in mano che non so come nascondere per non esibire le vistose macchie di sudore che ne insudiciano la fascia; incredulo, quasi smarrito, tutto pervaso da un mondo di gentilezze, di gesti distesi, di buone maniere, di parlare sommesso, di persone belle, elegantemente vestite. Come mi sentivo in imbarazzo nella mia divisa grigioverde che emanava un insopportabile lezzo da caserma: un distillato di secrezioni ormonali, di bassa cucina e di chiuso! Ero come un alieno, inebriato dalle essenze che provenivano dalle mie interlocutrici: un che di timo, di alpestre, di brezza primaverile, appena percettibile.
“Ecco,” pensavo, “questo è il profumo della libertà!“.
Avrei voluto tanto abbracciare e baciare quelle due creature per l’incredibile occasione che mi offrivano di scampare ai rigori del carcere da cui uscivo. Ma fu la signora ad anticiparmi.
“Dia pure il cappello a me”, disse con un sorriso pieno di comprensione, sottraendomi l’oggetto principale del mio disagio. Poi mi ringraziò della disponibilità e volle aggiungere che, nel caso quell’impegno fosse risultato troppo gravoso o in contrasto con le incombenze del corso, avrei dovuto sentirmi libero di lasciare. Ma su questo la rassicurai prontamente...

*****

Per un tempo che non so quantificare, quella ragazza ed io rimanemmo soli per dovere di studio, raccontandoci vicendevolmente di noi, dei nostri passatempi, dei progetti futuri, delle nostre passioni: il tutto in uno stentato francese che mai avrei osato correggere. Perché non erano parole, quelle che uscivano dalle sue labbra, ma dolci suoni, delicati medicamenti al mio animo piagato! Per una sorta di contrappasso evocavano i ricordi più recenti: relitti di un naufragio che affioravano in superficie, finalmente placati e distesi. Brandelli di ricordi, sconnessi. Il giorno della tonsura ad esempio: quel barbiere belluino, che, prima ancora di sistemarmi sulla “sedia del condannato”, fece scempio della mia chioma, senza tanti complimenti.  Brandeggiò  il suo lurido attrezzo come un vomere, tracciando “a zero”  un ampio solco per tutta la lunghezza  dello scalpo, dalla fronte alla nuca. Solo allora mi chiese sarcastico: “Allievo, come desidera tagliarli?”. Mi ferì non tanto quella tonsura da galeotto, ma il significato allusivo delle parole che avevano accompagnato quel gesto protervo: “Mio caro, ormai appartieni tutto all’esercito, dalla testa ai piedi, fattene in fretta una ragione se vuoi sopravvivere!”.
E poi il suono della tromba del silenzio, un suono da giudizio universale a chiusura di quell’ ultima domenica di luglio, giorno del mio compleanno e  primo giorno del mio arrivo in caserma. Pensai alla mia tromba e a quante volte avevo suonato quel brano. Un tumulto di ricordi mi serrò la gola. Eravamo soltanto in due in camerata (gli altri sarebbero arrivati alla spicciolata nei giorni a seguire), incapaci di dire una sola parola, tutti presi dallo sconforto e dai pensieri nostri, fingendo di dormire per evitare qualsiasi conversare.  Ma il sonno tardò molto a venire. Del resto le consuetudini di casa avevano ben altri orari per la ritirata notturna!
E poi quei due giorni successivi, trascorsi quasi interamente rinchiusi in camerata, che nel frattempo si era riempita degli altri compagni, con i quali era iniziato il disgelo e si rideva ironizzando sulle presenti disavventure.
Ogni tanto arrivava il caporale per controllare il rispetto della consegna: restare tassativamente all’impiedi, guai a sedersi sul letto o per terra e tantomeno sdraiarsi - e, soprattutto, al suo arrivo scattare sull’attenti. In una delle sue visite ci distribuì filo, ago, bottoni e mostrine, da applicare alla tuta mimetica che ne era totalmente sprovvista, unico indumento di cui eravamo rivestiti, dopo la dismissione degli abiti borghesi, che vennero riposti in una sacca e consegnati al medesimo caporale.
“Attaccateli bene questi bottoni”, raccomandò. “Il perché lo capirete tra qualche giorno, quando cominceranno gli sbalzi e i passi del leopardo”. Tutti presi dal nostro impegno di cucito, ridicolmente all’impiedi, sembravamo le comari di Burano o Torcello intente a guarnire di trine  tovaglie e merletti.
E poi il suono della tromba, in compagnia  dell’alba che ancora faticava a ripulire dalla notte i vetri della camerata; e l’urlo del caporale che spalancava con fracasso la porta gridando “Svegliaaa!”; e la concitata toeletta ai lavandini; e il frettoloso rivestirsi; e il goffo armeggiare con il “cubo”. Una manciata di minuti in tutto, poi fuori di corsa. Adunata. Attenti, riposo, attenti; e ancora: at-tì, rip-sò, at-tì. Alzabandiera. Mentre lo stendardo raggiungeva l’apice del pennone, guardavo con dolente nostalgia la sagoma ancora scura di un campanile, che spiccava netto sul cielo tersissimo di lapislazzuli, oltre il muro della caserma, unica forma familiare visibile dall’interno di quella prigione.
Qualcuno mormorava sottovoce: “Beh, dopotutto ne avremo solo per quindici mesi, possiamo già cominciare la conta alla rovescia. Oggi meno tre...” Finita la cerimonia, ancora di corsa per l’ultima adunata prima della colazione, a un centinaio di metri dal refettorio.
E poi, al “rompete le righe”, tutti a correre sfrenati, gareggiando a chi per primo avrebbe conquistato quella rivoltante scodella di latte in polvere appena scurito con del pessimo  caffè d’orzo, condito, si mormorava, con dosi di bromuro per tenere a freno le giovanili tempeste ormonali. Una mattina non mancò il prevedibilissimo incidente per quella corsa insensata, simile ad una carica di cavalleria. Alcuni della prima fila inciamparono, caddero e furono travolti dagli scalpitanti sopravvenienti. Si ricorse all’ospedale, per fortuna senza gravi conseguenze. Ma la corsa non cessò. Fu solo raccomandata un po' d’attenzione. Per questo mi tenevo sempre in ultima fila. In ogni caso il latte non l’avrei potuto evitare, né il primo scodellamento sarebbe stato migliore dell’ultimo.
“Allievo”, mi rimbrottò il caporale, “lei è sempre ultimo”.
Cercai di ingraziarmelo: “Non ultimo”, risposi, “ma il primo. Arrivo giusto per la colazione di domani mattina, caporale”.
“Domattina, allora, di pulizia ai cessi”, fu la risposta.
E poi quelle prime domeniche così lunghe, così tristi!
Alla domenica mattina c’era la messa nel cortile di mezzo, con l’altare e il celebrante tra due mitragliatrici puntate contro i pochi partecipanti; ai lati  di queste, quattro alpini armati di fucile, baionetta al fianco. Al momento della consacrazione i soldati, dopo aver inastato le baionette, scattavano sull’attenti, con i fucili rivolti al cielo. Nessun canto accompagnava l' Elevazione. A rompere quel silenzio c'era quasi da aspettarsi il crepitio di una scarica di fucili. La prima volta che assistetti a quello spettacolo pensai che per Cristo era stato più facile incarnarsi a Betlemme nella famosa mangiatoia, che alla caserma “Cesare Battisti” di Aosta.
La domenica pomeriggio era invece dedicata alle pulizie: pulizia e oliatura del fucile e della baionetta, pulizia e lucidatura delle calzature, pulizia e svuotamento intestinale con annessi e connessi, perché era quasi impossibile trovare un cesso libero durante la settimana - se non nottetempo, come ladri, purché il sonno lo consentisse.

*****
 
A una certa ora la signora venne addirittura con il tè e i biscotti, che mi fecero l'effetto della proustiana “madeleine”. Mentre mi serviva, guardavo incantato quelle sue mani delicate e dentro di me dicevo: "Dunque sono ancora un individuo, una persona!". Mai ebbi a sorbire bevanda più deliziosa in vita mia. Sorseggiavo quel tè con gli occhi socchiusi come in deliquio e lo confrontavo con la cucina della caserma, specie gli oggetti del servizio. Qui, raffinate tazzine di porcellana impreziosite da elementi scelti con cura per esaltare il contenuto ambrato; là, il mitico “vassoio” di latta, a più scomparti, lercio come un trogolo, dove gli addetti, ovvero la feccia della servitù militare, lì ridotti in punizione per chissà mai quali delitti, via via “spalavano” con livore grumi e poltiglie di materia irriconoscibile.
Finire nella cucina della caserma era come scendere nell’abisso. Venne il mio turno una domenica, la più triste della mia vita. Insieme ad un amico fummo subito avviati al servizio più infimo, quello riservato ai nuovi arrivati, e cioè a rigovernare i vassoi e le enormi marmitte da campo. Dopo aver lavato  (si fa per dire) decine e decine di quei sozzi contenitori, untuosi e viscidi, eravamo ridotti “come porci in brago”. Poi vennero i marmittoni, enormi contenitori per la cucina da campo. Scoperchiato il primo, fummo travolti da un'esalazione mefitica irrespirabile. Il mio amico barcollò esausto e disse, pieno di sconforto: “Davvero, io non ce la faccio più”. Si  accasciò in un angolo, come chi, ormai rassegnato, si consegna al boia purché sia finita. Ne ebbi pietà, ma più di me stesso e, non so come, finii di mondare quegli orrendi bidoni. Terminato il servizio, nonostante una doccia senza fine, puzzavamo ancora di sentina e quell’odore insopportabile riaffiorava a tratti nel ricordo mentre riempivo le mie narici del profumo del tè.
Quando la signora mi chiese di potermi chiamare per nome rimasi quasi interdetto. Stavo appunto pronunciando il mio cognome, per l’abitudine contratta in caserma, dove si esisteva soltanto grazie al patronimico e non per nome proprio, considerato un accessorio di superfluo individualismo. Per un momento pensai a quante volte avevo ripetuto là dentro il mio cognome e nome con la formula di rito, rigorosamente sull’attenti: “Allievo ufficiale …, 1a compagnia,  2° plotone, 3a squadra, comandi, signor tenente!”. Al punto da non sapere se era grazie alla Compagnia che dovevo la mia esistenza di individuo.
Quella formula non mi veniva mai bene, per via del tono di voce, così poco virile a giudizio del mio comandante. Doveva essere urlata e con fare deciso. Per facilitarmi il compito, ad ogni riprova il tenente mi ordinava di allontanarmi di qualche decina di metri e di ripeterla, così che, spostamento dopo spostamento, arrivavo a raggiungere l'estremità del cortile. Alla fine, sempre insoddisfatto, mi somministrava come terapia alcuni giri di corsa intorno al muro di cinta. Un esercizio che non disdegnavo perché  finalmente restavo solo con me stesso e che, data la frequenza, contribuì molto a migliorare il mio tono muscolare e la mia resistenza fisica, ma non valse a risollevare le mie prestazioni vocali. Ad ostacolarle era la strana sensazione che provavo ogni volta che mi sentivo ripetere il mio cognome e nome, urlato a quel modo, quasi fosse il nome di un altro, diverso da me, indissolubilmente coniugato a una compagnia, a un plotone, a una squadra. A quel punto smarrivo la nozione della mia identità e, chissà perché, scoppiavo a ridere come un idiota.
Uscendo da quell'abitazione di delizie notai, piacevolmente sorpreso, che erano sparite le macchie dalla fascia del mio cappello, che ora odorava delle medesime essenze che avevo inspirato all'arrivo.

*****

Rientrai in caserma dal nuovo impegno proprio nel momento in cui i miei compagni tornavano sfatti da una marcia. Quelle loro facce stravolte, segnate dalla fatica e dal sudore, suscitarono in me un senso di colpa. Conoscevo bene quei momenti: ti sentivi un grumo di stanchezza, i piedi doloranti per la pesantezza degli scarponi non ancora domi, senza voglia di parlare, tanto meno con uno che si era defilato e ti stava lì davanti bello, pulito, riposato. Non importava la ragione per cui quello se l'era scampata: era un disertore schifoso e basta. Un essere vile, indegno di lordare con la sua presenza una camerata di veri soldati. Provavo un sentimento di rimorso e di vergogna insieme, sentivo di non meritare di fare ancora parte del plotone e della compagnia. Tuttavia tali nobili sentimenti si dileguarono puntualmente il giorno seguente, quando venne l'ora di riprendere il mio nuovo, ormai quotidiano, impegno.
La disparità tra la mia condizione e quella dei miei compagni diventava di giorno in giorno insostenibile e non c'era ragione che la giustificasse. Di fatto partecipavo alle sole lezioni d'aula del mattino, mentre il pomeriggio era tutto per me e rientravo giusto al momento di incontrare gli altri di ritorno dalle esercitazioni o dalle marce. In realtà la faccenda andava assumendo i contorni di una  provocazione intollerabile per il nostro tenente, che non  poteva accettare il fatto che riuscissi a eludere tutte le fatiche e i progetti educativi a me destinati.
Del resto, come dargli torto? Solo un "cocco di mamma", un raccomandato speciale poteva dribblare con tanta sfrontatezza tutte le pomeridiane corvées. Una situazione incompatibile con i principi stessi della scuola militare. Presentandosi al nostro plotone quale comandante, a scanso di equivoci, il tenente aveva subito precisato: “Allievi, ricordate bene, non si viene alla “Battisti” per divertirsi! Capito?”. Con l’indice della mano destra guantata, inquisitoriamente puntato contro di noi, volle rimarcare quel “capito?” come se ci avesse scoperti già colpevoli, mentre con la sinistra denudata tratteneva l’altro guanto con superiore indifferenza.
Col trascorrere dei giorni cresceva in me un'ingenua baldanza, tale da farmi ritenere che tutto sommato la fortuna capitatami fosse quasi un diritto. Arrivavo perfino a pensare di essere venuto ad Aosta per le mie competenze linguistiche a beneficio della figlia di un colonnello, mentre il corso AUC costituiva un curioso evento marginale. Ma tanta sicurezza finiva per rafforzare il desiderio di vendetta del nostro comandante. Ogni tanto mi arrivava qualche segnale: “Anche oggi il tenente ha chiesto di te”. Oppure: “All'appello il tenente ha pronunciato il tuo nome con una smorfia”. O, ancora: “All’occhio amico, attento all’uomo che ride!". Però io non seppi o non volli dare il giusto peso a simili avvertimenti, tanto mi sentivo sicuro.

*****

La “smorfia” era un tratto distintivo del tenente, forse a causa di un maldestro intervento chirurgico, che aveva conferito al suo labbro superiore un sorriso sinistro, quasi un ghigno. Tra amici lo chiamavamo sottovoce “l’homme qui rit”, in omaggio a Hugo. In realtà non c'era molto da ridere. La natura o l’arte (chirurgica), non so quale delle due, o forse entrambe, lo avevano dotato di un sorriso indelebile: perché il tenente di suo non sapeva sorridere. Gli mancava il senso dell’ironia. Difficile  far coesistere ironia e spirito militaresco, è come unire l’acqua col fuoco. Eseguiva con rigoroso puntiglio la sua missione educativa, che consisteva nell'eliminare in noi ogni traccia di individualismo ... specie nel pensare, attività considerata del tutto superflua dal momento che il plotone doveva comportarsi come "un sol uomo", pronto ad eseguire ciecamente qualsiasi ordine, anche uccidere se necessario.
Non era forse questo lo scopo finale di ogni addestramento militare?
Dalle alterazioni del "ghigno" si poteva ben capire il fastidio che provava quando un allievo si prendeva  la libertà, anche minima, di uscire dai ranghi, come ad esempio il fatto di rispondere ai suoi ordini "sissignore" anziché "signorsì, comandi!". Sottigliezze, s'intende, ma la sua indole un po' carogna sapeva cogliere quelle sfumature e leggervi un tentativo di ribellione, ovvero la sopravvivenza di un anticonformismo borghese non del tutto sepolto. Nonostante i suoi richiami, io mi ostinavo a rispondere ancora "signorsì, sissignore!", omettendo volutamente il "comandi!" e includendovi quel "sissignore" che sapeva di borghese trasgressione. Alla fine fu lui ad uscire vincitore della partita, perché ad ogni minimo scostamento dalla regola corrispondeva qualche fatica fisica supplementare, che si andava ad aggiungere a quelle d'ordinanza, già di per sé piuttosto pesanti. Più d’ogni altra punizione, temevo il servizio di cucina.
Quel giorno a Pollein, ricordo ancora, rinunciai alla cucina da campo perché la sola vista dei marmittoni mi fece rivoltare lo stomaco. Fingendo di aver già consumato la razione, andai a stendermi sfinito all’ombra di uno smilzo alberello, dopo essermi tolti gli scarponi con i quali ancora faticavo a familiarizzare. Una leggera brezza leniva le bolle dei miei piedi doloranti e un sonno furtivo mi stava adescando. D’improvviso sentii gracidare la sua voce: “Allievo, le sue zampe puzzano di m…!!”. Colto di sorpresa, nel dormiveglia, avrei volentieri strozzato quell’intruso che mi stava dando dell’animale. Preferii rintuzzarlo: “Signor tenente, è il profumo delle sue parole ad ammorbare l’aria!”. Non stette al gioco e volle esibire il vantaggio dei suoi gradi maramaldeggiando: “Veda di sigillare subito dentro gli scarponi quei due str… di  piedi. Chiaro!?”.
Il tenente non era persona amata (probabilmente nessuno lo sarebbe stato al suo posto); ma non tanto per il compito che svolgeva, fin troppo ligio alle istruzioni ricevute e che tutti potevamo giustificare, bensì perché "ci metteva del suo", con un certo sadico compiacimento. Come quella volta, durante un'esercitazione all'interno di un fortino. Dopo essersi accertato che fossimo tutti dentro, fece esplodere un candelotto di gas lacrimogeno. Io, che stavo presso l’uscita secondo un’abitudine che mi ero imposta, tentai la fuga, ma mi ricacciò subito indietro, mentre lui se ne uscì sprangando a chiave il portellone. Rimanemmo rinchiusi per diversi minuti nell'odore irrespirabile di un fumo acre e irritante che riempiva ogni minimo spazio. Quando infine il portellone si aprì uscimmo alla cieca barcollando, boccheggianti come pesci spiaggiati. Qualcuno stava male davvero e più tardi fece ricorso alle cure del medico, che non mancò di riprendere quella azione sconsiderata. Questo però si seppe molto più tardi - e appena sussurrato.
Alla fine di una giornata così densa di fatica, finalmente distesi sulla branda prima che un sonno omerico ci divorasse, si alzava ancora qualche flebile vocina, come da ubriaco: "Ragazzi, ditemi, cosa fareste al tenente se vi capitasse  un giorno di trovarlo  da borghesi?" A quel punto anche chi stava russando si svegliò di soprassalto, per poter aggiungere una sua particolare sevizie all'elenco di quelle che  già decretate. Come i topi della favola, che in assenza del gatto si riuniscono a concilio per decidere il modo più sadico di vendicarsi; ma, appena ne vedono spuntare la coda, fuggono precipitosamente a rintanarsi.
E il mattino, che arrivava sempre troppo presto come un pugno nello stomaco, ancora gravido di sonno e di stanchezza arretrati, il tenente-gatto passava per ispezionare il "cubo".

*****

Quando arrivai alla "Cesare Battisti", del cubo sapevo che è uno dei cinque solidi che fanno parte del platonico empireo geometrico. Ma il cubo in quel luogo era una vera ossessione, la metafora dell'educazione militare: rigida, impeccabile, sostanzialmente vuota. Il cubo costituiva il primo impegno dell'allievo al sorgere del nuovo giorno e l'ultimo prima del sonno. A pensarci bene la giornata era un segmento di una linea tortuosa delimitato da due momenti fondamentali, anche se inutili, entrambi relativi al cubo: la sua costruzione al mattino e la sua distruzione prima di dormire per rifare la branda.
Brutalmente svegliato dall'urlo del caporale, l'allievo doveva subito provvedere alla perfetta piegatura delle lenzuola che, pari al contenuto di un sandwich, andavano poste all'interno del materasso, a sua volta piegato in due. Non era facile a quel punto, con i pochi minuti a disposizione, ottenere un solido perfetto come da regolamento, allineato  come tutti gli altri a capo del letto, sia pure con l'ausilio  della coltre ben tesa che andava a impacchettare l'insieme. Per chi, uscendo, si voltasse a guardare la camerata, il risultato di tanta applicazione e cura appariva come un angolo di cimitero di guerra, con le sepolture rappresentate da quelle masse bianche squadrate e ben allineate. Del resto l'idea di cimitero è connaturata allo spirito militare. Quante magnifiche opere hanno abbellito il mondo alla fine dei conflitti per celebrare le ecatombi di cui essi stessi erano responsabili! Povera umanità senza le guerre, orbata di siffatti monumenti!
Divagazioni a parte, troppe contrarietà si opponevano al raggiungimento del cubo perfetto. A cominciare dal telo della branda che fungeva da rete, su cui l'uso e il tempo avevano prodotto una depressione profonda, tale da imprimere al cubo un'inclinazione pisana; né poteva soccorrere il materasso, la cui la vetustà, con il concorso della notte, l'aveva trasformato in una poltiglia gelatinosa, impossibile da far solidificare in spigoli vivi. In aggiunta ai suoi componenti costitutivi, sei facce otto spigoli dodici lati, in quelle prime settimane il cubo possedeva quasi sempre almeno un elemento in più, assolutamente vietato: presentava la "foppa", ovvero un avvallamento più o meno marcato sulla faccia superiore, che, nell'insieme, lo rendeva moscio e cascante, come un dipinto di Dalì.  Così purtroppo appariva spesso il mio giaciglio dopo il tentativo di erigerlo  a cubo, privo di quella lievitazione che rende i cubi solidi e  gagliardi, come blocchi in marmo di Carrara. In quei primissimi giorni non mancarono discussioni sul come confezionare quell'oggetto, si svilupparono teorie, sorsero perfino scuole di pensiero.
A contrastare la corretta costruzione del cubo, oltre la concitazione e la fretta che presiedevano le operazioni del risveglio, c'era  anche il sonno, che si opponeva a una trasformazione così brusca dello stramazzo in prisma regolare.
Il sonno aveva una parte determinante nella vita militare e costituiva una variabile indipendente da tutto il resto. La parsimonia con cui veniva somministrato faceva sì che nel corso della settimana si accumulasse immancabilmente una grossa parte di arretrato, soggetta ad incrementi, mai a riduzioni, a seconda dei servizi cui l'allievo era destinato e la cui frequenza era spesso legata al numero e alla qualità delle punizioni guadagnate, anche per un nonnulla: la mancanza di un bottone della camicia, ad esempio.
Il recupero domenicale, quando possibile, era una misera panacea. Ricordo ancora quelle tre ore di servizio di guardia notturna supplementare intorno alla cinta esterna della caserma, guadagnate sul campo per non aver lasciato sul terreno “il solco del vomere”. Dove per “vomere” (“prezioso” eufemismo del tenente che aveva talora di queste finezze)  era da intendere il fallo, che lasciava traccia di sé sul terreno come l'aratro, appunto, solo in caso di corretta esecuzione del passo del leopardo, richiedente lo schiacciamento al suolo di tutto il corpo, ventre a terra (specie le sue emergenze centrali). Questi erano i nostri ideali di perfezione in quelle prime settimane di corso: il cubo, il solco del vomere, il presentat-arm, l'angolatura della piuma sul cappello rispetto alla fascia e così via elencando.
"Allievo, lei continua a fare il passo della foca", giudicò il tenente dopo i miei plurimi tentativi, tutti abortiti, nell'eseguire il passo del leopardo. E guadagnai così la mia giusta punizione. Durante quelle interminabili tre ore di guardia, nella spasmodica attesa del cambio, vedevo come in sogno Palinuro che sprofondava  nelle acque del Tirreno e finalmente aveva pace.
"Allievo, torni indietro a rifare il cubo!"  tuonava il mio superiore dopo l'ispezione.
Mi ci volle una settimana buona e un buon numero di rifacimenti,  per capire che la foppa si poteva eliminare con l'ausilio di materiale vario, opportunamente imboscato sotto la coltre o tra le pieghe dello stramazzo. E l'arte era, appunto, quella dell’imboscamento, che nel significato più esteso comprendeva anche la menzogna. Sempre accetta, addirittura sollecitata, fin dai tempi di  Sparta, purché non scoperta. E solo in quest'ultimo caso il giovane lacedemone avrebbe compiuto un'azione riprovevole anche moralmente.
 "Allievo", mi disse perentorio un giorno il tenente guardandomi fisso negli occhi con quella smorfia che virava al cattivo. "Lei deve negare, deve negare sempre, anche l'evidenza! Capito!?"
Pronunciava quel “capito?” come un’offesa aggiunta, intendendo: “Quanto sei duro di comprendonio!”. E spesso concludeva il refrain consigliando: “Allievo, si faccia una buona cura di bistecche di volpe”, alludendo all'astuzia di cui ero carente. Altre volte suggeriva un’alimentazione a base di “code di leone” per stimolare la virilità del guerriero.
La questione si era posta un lunedì mattina (eravamo verso la fine del mese di agosto), quando un caporale passò per le aule dicendo che il generale  aveva visto a Courmayeur degli allievi intenti a fare l'autostop. Voleva il nome di quelli che si erano resi responsabili di un'azione così volgare, indegna di futuri ufficiali. Il tenente passò in rivista con lo sguardo fulminante ciascuno di noi, ma nessuno si mosse. Trascorsero pochi minuti in un silenzio di tomba. Poi, spinto dal pensiero che altri potessero pagare caro il mio silenzio, mi alzai in piedi sull'attenti, nella speranza di non essere il solo.
"Signor tenente," dissi, "io sono tra quelli che hanno tentato di fare l'autostop: dovevamo rientrare in caserma e a quell'ora non c'erano mezzi pubblici in servizio ".  
Dopo di me, nessuno più si alzò, eccetto il tenente, che doveva essere rimasto sbalordito dal mio stato di anemia volpina. Volle comunque prevenire altre confessioni e venne contro di me come uno sparviero, fino a sfiorarmi: "Allievo", disse con voce alterata e scandendo bene le parole, "lei deve negare, deve negare sempre, anche l'evidenza! Capito!?".
Certo che avevo capito! Perché, guardandolo così da vicino, constatai che per statura non mi arrivava al mento. Dettaglio per nulla trascurabile, quando il rapporto si instaura sulla base di una supremazia autoritaria e villana.  Questo mi rassicurò e mi diede il tempo di pensare. Lo spazio di un secondo appena e il pensiero si formulò chiarissimo: "Se per caso mi venisse il ghiribizzo di raccontare la verità a qualche altro superiore, non io, ma il signor tenente mio comandante verrebbe punito per primo. Questo è il bello della gerarchia! Perciò, nonostante la mia confessione, ora tocca a lui coprirmi con il silenzio! E senza alcuna punizione, per giunta”.
Poi si rivolse all'intera classe di allievi con tono minaccioso: "Qui dentro, ieri pomeriggio, nessuno è andato a Courmayeur. Capito?". Per questa volta con quel “capito” gratificava l’intera classe di “durezza caprina”.
Il silenzio che seguì confermò  l’unanime assenso.

*****

“Dopotutto anch'io a mio modo sono un imboscato”, mi sorpresi a riflettere un giorno, “ormai  privo di freni che mi rimordano la coscienza”.
L’appellativo “imboscato” era una  grave offesa rivolta a un compagno ed era tale anche se pronunziata per scherzo. Capivo che con le mie “sortite” sotto il profilo morale avevo intrapreso una china pericolosa, che mi avrebbe portato sempre più in basso. Forse al tradimento, considerate le circostanze.
“Dimenticavo forse che a casa c’era un’altra fanciulla in attesa del mio ritorno, a cui scrivevo romantiche dolcezze?”.
         Alla debolezza di volontà nel prendere la giusta decisione venne in mio soccorso il sordo rancore del tenente, dal momento che quelle mie pomeridiane defezioni lo rendevano livido di rabbia e quindi non potevano continuare più a lungo.
La stoppata arrivò  in due momenti diversi.
Ricordo che nelle prime settimane del nostro soggiorno aostano furono sorteggiate alcune licenze brevi e il mio nominativo, incredibilmente, figurò tra i pochissimi fortunati, forse cinque in tutto. Non ne fui sorpreso, perché mi sentivo nel mio momento migliore e consideravo quel singolare colpo di fortuna quasi un atto dovuto nei miei confronti.
Già pregustavo il rientro a casa quando, nel giro di pochi minuti dalla comunicazione, arrivò di punto in bianco il contrordine d'annullarla, senza alcuna spiegazione. In quel momento ero in camerata con i miei compagni che, per essere rimasti esclusi dalla buona sorte, presero a sfottermi con fragorose risate. Era chiaramente un atto di giustizia, somministrato da una provvidenziale mano ignota. Ma io non la presi bene e,  colto da un repentino moto di stizza, sfogai la mia rabbia con un calcio contro uno sgabello di ferro, che restituì la mazzata al piede con pari violenza. Risate generali e dolore acuto che mi fece saltellare per la stanza come una quaglia ferita. Il risultato fu un vistoso rigonfiamento del piede che mi costrinse l'indomani  alla visita medica.

*****

Nell’infermeria della caserma fui accolto da un ineffabile colonnello medico, incredibilmente gentile, una figura surreale in quell’ambiente greve. Come l’inatteso spalancarsi di una finestra sul cielo azzurro in una cupa miniera di carbone.
Il primo incontro con il colonnello medico era avvenuto in occasione delle famose iniezioni immunizzanti, di cui si favoleggiava già fin da bambini con toni smodatamente esagerati, serbando tuttavia nell’inconscio un’immagine terrificante. Prima di procedere all'operazione vera e propria, il colonnello volle schierare tutta la compagnia davanti a quel basso edificio che fungeva da infermeria, così lindo e raccolto da apparire un corpo estraneo nel contesto di una rude architettura militare. Forse il nostro colonnello intendeva fornire qualche ragguaglio sul candore del suo animo e la ricercatezza del suo eloquio, piuttosto che illustrare l'intervento medico che sarebbe seguito. All'intera compagnia di allievi sull'attenti, tutti presi dal pensiero di ciò che sarebbe seguito, in un clima di palpabile tensione quasi si dovesse di lì a momenti scattare all'assalto di una postazione nemica, volle, tra le altre cose, raccomandare con raro preziosismo lessicale la delicatezza da usare nella prima notte di nozze. A proposito della sposa, parlò di “creatura delicata e schiva”,  richiamandone il “colorito roseo”, l’“incarnato opalescente e diafano”. Insomma, la stava prendendo alla larga, forse nell'intento di dissipare l'ansia che già cominciava a sbiancare qualche volto. Ma ottenne l’effetto  contrario.
Intanto alle sue spalle, alcuni infermieri-monatti dal sogghigno luciferino, sbracati come norcini, mimavano le sue parole, simulando le dimensioni enormi della siringa con allusioni da trivio, mentre atteggiavano le mani ad un gesto di vampiresca pietà: “Aspettate e vedrete, povere creature!”. 
Improvvisamente, proprio davanti a me cadde un allievo in tutta la sua lunghezza, con un tonfo che ci colse tutti impreparati e ci spaventò come animali che presagiscono l’imminente macello; seguirono altri qua e là, colti da svenimento, che furono prontamente soccorsi dai “monatti”, con l'indifferenza di chi è abituato da tempo a scene del genere.
"Fa meno impressione", pensavo, "offrire il petto al fuoco nemico che alla siringa di un macellaio-monatto".
A quel punto il colonnello chiuse in fretta il discorso per non rimanere solo con qualche superstite e dette seguito all'intervento in programma.
Quando mi presentai a lui per l'infiammazione al piede, mi  ricevette nel suo studiolo come il confessore accoglie un penitente da lungo atteso. Mi chiese della mia vita da civile e, saputo che facevo il maestro elementare, i suoi occhi brillarono come se si fosse improvvisamente trovato davanti l'autore del libro “Cuore”. Allora tutta la sua indole eroico-patriottica lo trasfigurò: non volle credere alla mia versione sulla causa dell’incidente. Troppo banale stendere un rapporto su un infortunio occorso picchiando inavvertitamente contro uno sgabello di ferro. Anzi, considerava quel mio rapporto come un atto di umiltà, ancora più encomiabile, perché volto a sminuire un comportamento esemplare. E allora, perché sprecare l' occasione di esaltare un raro gesto a compimento del proprio dovere con magnanimo sprezzo del pericolo?
Il colonnello aveva l'animo del poeta nobile e dolente, capace di  sublimare gli eventi più banali in atti eroici. Prese spunto dal mio ridicolo caso per descrivere una prova straordinaria di coraggio e di abnegazione, degna di encomio. Credo che l’avrei fatto felice come un bimbo se nell’incidente avessi perso davvero il piede o, meglio ancora, fossi “caduto” per sempre. Che magnifico rapporto ne sarebbe scaturito!
Naturalmente i tre giorni di riposo che mi vennero concessi per motivi di salute, che non interruppero affatto la continuità delle conversazioni pomeridiane di francese a cui mi ero molto affezionato, mi sottrassero anche alle incombenze mattutine di caserma. Privilegio, quest'ultimo, che fece l'effetto di una freccia conficcata nell’occhio di un toro inferocito, che per la circostanza vestiva la divisa del nostro tenente, ovvero, de "l’uomo che ride". Quanto alla figlia del colonnello, che mi chiese ragione della mia claudicante andatura, mi limitai a invitarla a tradurre in francese il rapporto del medico militare, che avevo portato con me.

*****

E venne la seconda, definitiva legnata. Ricordo bene quel tardo pomeriggio, al mio ormai abituale rientro in caserma, quando varcai la soglia della camerata e d'improvviso mi si parò davanti “l’homme qui rit”. Era lì, tutto solo, che mi stava aspettando (i miei compagni si erano già avviati alle cucine per il rancio serale).
A quel tempo si accedeva alle camerate da un ampio corridoio, scivolando su certe  pattine di feltro, utilizzate per non lasciare tracce su quel lurido pavimento di piastrelle rosse tenuto costantemente a cera dai "volontari" delle pulizie.
Era uno spettacolo singolare vedere gli allievi in tenuta da guerrieri, reduci da una marcia o da pesanti esercitazioni, con la tuta coperta di polvere o di fango, carichi di zaino, fucile a tracolla, baionetta al  fianco, elmetto in testa, con gli inseparabili scarponi Vibram ai piedi volteggiare graziosi su quei feltri come ballerine su ghiaccio, alla conquista di un cesso libero o di una doccia.
Stranamente la camerata era il luogo più frequentato in quelle prime settimane. Vi si entrava, sempre per gruppi, un numero incredibile di volte durante la giornata; e non certo per riposare, ma perché ad ogni cambio di attività era richiesto un abbigliamento diverso.
E le attività si susseguivano senza sosta.
C'erano giorni in cui la camerata si sarebbe scambiata per il camerino di una sfilata di moda, dove le modelle si ritirano per mutare d'abito. La differenza stava nei pochi secondi concessi agli allievi per le 'operazioni di cambio e per il relativo "imboscamento" (nell'armadietto o sotto il cubo) di quelli dismessi. Ma consisteva anche nell'assenza di disordine, che tuttavia regnava sovrano anche se completamente sottratto alla vista, come polvere sotto il tappeto.
Sarebbe bastato aprire un armadietto per venire travolti da una varietà di oggetti, di cianfrusaglie, di indumenti, tale da rifornire un intero mercatino delle pulci. Tutto stava lì, stipato frettolosamente, alla rinfusa.
La liturgia prevedeva che ogni accesso alla camerata fosse preceduto dall' immancabile adunata nel cortile antistante, con un susseguirsi sfibrante di "attenti!" e "riposo!", a discrezione del comandante, fino a raggiungere quella che lui riteneva essere la perfezione formale, geometricamente impeccabile; perfezione che però risultava sempre contrastata dalla stanchezza o da qualche impellente bisogno. Dopo l'ultimo "Att - tì", modello di assoluta precisione, ecco finalmente l'attesissimo "Rompete le righe!", subito seguito da un concitato indaffararsi simile allo sfrecciare velocissimo delle particelle che si sprigionano dal bombardamento di un atomo, puntualmente cronometrato; e poi di nuovo adunata in cortile, dove, all'ennesimo "Attenti", seguito dal comando "Avanti, march!" oppure "di corsa" lo schieramento si sarebbe spostato in altro luogo, per altra attività.
Anch'io avevo raggiunto la camerata a bordo delle pattine, tutto solo data l'eccezionalità della mia mansione, leggero come un fringuello. Tuttavia la vista de "l’uomo che ride" mi bloccò di sorpresa e d'inquietudine. Mi colpì particolarmente il suo ghigno e scattai sull’ attenti: “Comandi, signor tenente!” quasi urlai. Non mi dette tempo né modo di tornare a comparare bene la sua statura alla mia: posto a una certa distanza, mi sembrava stranamente più grande di me. Pronunciò poche parole, con un velo di perfidia, come frustate: “Allievo, vada a ritirare la radio, quella più pesante. Tra dieci minuti in cortile con gli altri, per l’esercitazione a Quota 801”.
Dieci minuti soltanto per: ritirare la radio e il fucile, predisporre lo zainetto da combattimento, indossare la tuta mimetica, cinturone, baionetta, scarponi Vibram e berretto. Non ebbi il coraggio di obiettare che così avrei saltato la cena, ma risposi con un debole “Signorsì, signor tenente!”.
La radio in questione era un residuato dell’esercito americano della seconda guerra mondiale, a quel tempo ancora in dotazione all'esercito italiano. Non era certo famosa per le sue prestazioni, perché già da tempo circolavano strumenti di comunicazione ben più efficaci e assai meno ingombranti. Sicuramente era eccezionale per la dimensione e il peso. Quindi il suo utilizzo risultava ottimo per abituarci a trasportare in montagna dotazioni pesanti, poco maneggevoli e sostanzialmente inutili.
All'ora stabilita, nel cortile mi trovai con una squadra diversa dalla mia e il tenente si premurò di controllare che la mia tenuta fosse in regola: in particolare che lo zainetto contenesse tutto ciò che prevedeva il regolamento, in pratica che risultasse il più possibile pesante.
C’era ogni tanto, in effetti, qualche “furbetto” che stipava lo zaino di carta o stracci, per farlo sembrare colmo mantenendolo però leggerissimo. Ma il rischio era enorme. Sapevo bene che il mio zainetto sarebbe stato ispezionato e il pensiero di truccarlo non mi passò nemmeno per la testa, perciò lo riempii di tutte le pesanti inutilità previste dal regolamento.
Dopo i controlli, il tenente dette l’ordine di caricare in spalla zaini e armi. Io portavo lo zainetto, anziché lo zaino, più  grande e più capiente, perché quest’ultimo non poteva essere associato alla grande radio portatile. Nel mio caso, oltretutto, sarebbe bastata la sola radio, già abbastanza pesante.
Infine il plotone si mise in marcia alla volta di Quota 801 come fosse un solo elemento, modulando la cadenza del “passo” ai latrati del comandante. Un leggero sbuffo di polvere ci accompagnava.
All’uscita dalla caserma occorreva attraversare per un tratto la città, ancora pianeggiante, prima di affrontare il sentiero che porta  a Quota 801, che si ergeva subito in salita, quasi perpendicolare come un’arrampicata. Privo (ormai da giorni!) dei quotidiani, salutari allenamenti cui erano sottoposti i miei compagni, Soprattutto mi dolevano le spalle, tormentate da tutte quelle cinghie che tenevano allacciati i vari fardelli: lo zainetto, il fucile, la radio. E poi c’era quell’inutile pala infilata nello zainetto, il cui manico fuoriusciva da un angolo, giusto per sbattere ad ogni passo contro la canna del fucile, che a sua volta mi percuoteva la nuca. Ero già stanco ancor prima di cominciare la salita. Sudavo e avevo una sete da morire. Pensavo che non avrei mai raggiunto la fine di quel supplizio.
Quota 801 fu il mio calvario e la radio la mia croce. Aveva la forma di un armadietto in ferro, con certe costolature spigolose che solcavano la schiena come un randello. Ad ogni passo sentivo la mente svuotarsi per la fatica e cercavo  disperatamente di tenere dietro a chi mi precedeva, senza più pensare ad altro che a mettere il piede vacillante sulla traccia lasciata da chi mi stava davanti. Oltretutto faceva un caldo insopportabile, soffocante, senza un filo d'aria.

E poi mi dolevano i piedi, specie il sinistro. Certo, i miei scarponi risultavano molto più rigidi di quelli degli altri, visto lo scarso uso che ne avevo fatto fino a quel momento... Ma influiva anche il fatto che fossero spaiati - proprio così!
Quando già la fatica si stava avvicinando pericolosamente al deliquio, mi si ripresentò alla mente (proprio come in una visione) l'episodio della distribuzione delle calzature: Vibram, scarponcelli leggeri, scarpe da diporto, scarpette da ginnastica... Il magazziniere si divertiva a lanciartele da lontano, pretendendo di riconoscere a vista il numero adatto ai tuoi piedi. Fu così che mi toccò un paio di scarponi con numeri spaiati, il sinistro leggermente più piccolo del destro. Non così i miei piedi, purtroppo! Alle mie proteste, il caporale che sovrintendeva l'operazione (che ovviamente favoriva di proposito tali inconvenienti, per scuotere la nostra borghese mollezza) non volle saperne di rimediare, assicurandomi che con l'uso lo scarpone si sarebbe perfettamente adattato al piede... O che, diversamente, il piede avrebbe ceduto alla calzatura. Ed effettivamente era stato il mio piede sinistro ad uscirne sconfitto. 
Quella memorabile sera, piede e scarpone sinistri stavano ancora lottando per stabilire chi per primo si sarebbe imposto sull'altro. Vedendomi in quello stato, qualcuno generosamente si offrì di sostituirmi per il trasporto della radio. (Quando si dice lo spirito alpino! Doveva essere sicuramente un alpino anche quel tal cireneo che subentrò a reggere il peso dell’altra croce). Ma “l’homme qui rit” fu inflessibile e senza pietà. Del resto, tutta quella esercitazione non era stata forse architettata apposta per me? Quanta postuma riconoscenza per quell' indimenticabile dono!.
Quando finalmente misi piede sul breve spiazzo della cima, la mente vacillava, come febbricitante, il cuore mi batteva con colpi di maglio, l’arsura mi bruciava la gola: avevo esaurito ogni risorsa e non sarei stato in grado di fare un passo in più. Perciò, quasi svenuto, caddi sull’erba con tutto il carico sulle spalle.
Appena mi ripresi vidi “l’homme qui rit” che mi stava davanti, ritto in piedi. Mi sembrava di essere nella posizione del povero Ferrucci, mentre gridava: "Vile, tu uccidi un uomo morto!".
Lui però mi fissava con uno strano ghigno, diverso dal solito. Stavolta accennava al sorriso. Mi sembrò un sorriso di vera soddisfazione. Poi la sua bocca parlò: “Allievo, per la discesa passi la radio a lui” e indicò un compagno che mi stava vicino.
Diversamente da Maramaldo, mi aveva concesso la grazia.
Prima di scendere, vicino a me si raccolse tutto il gruppo e qualcuno scattò delle foto.
Scendemmo che era già notte.

*****

Steso sulla branda non riuscivo a prender sonno per la troppa fatica, così ebbi tutto il tempo di meditare sugli eventi trascorsi. Soprattutto mi chiedevo quali ripercussioni avrebbe avuto una mia richiesta di intervento da parte della gentilissima signora per sottrarmi a fatiche di quel genere.
Poi pensai a come avrebbe ragionato il tenente: “Questo allievo non crederà  mica di essere venuto alla Scuola Militare Alpina per fare il professorino di francese! Glielo do io il francese!”
Il mattino seguente avevo le idee molto chiare sull’argomento che mi aveva tenuto sveglio durante la notte. Pensavo che in fatto di “lezioni” il tenente era stato assai più efficace e più sbrigativo di me, anche se la mia lentezza in proposito aveva fondate e buone ragioni, non solo didattiche. Ma una terza “lezione” da parte sua, pur favorendomi al cospetto di qualcuna, mi avrebbe sicuramente impedito di fregiarmi della “stelletta”, obiettivo finale del corso.
E non tanto per mancanza di merito, ma per conclamato deficit intellettivo.
Così telefonai alla signora dicendole che, purtroppo, il programma del corso era cambiato e che, di conseguenza, mi sarebbe stato impossibile conciliarlo con le lezioni di francese. Mi scusai dell’inconveniente e la ringraziai molto per la sua gentilezza.
Quasi di sfuggita le ricordai di salutare per me la figlia.

Luglio 2017

Danilo Dal Monte

 

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