La Naja è bella ma scomoda
Due ex allievi del 48° AUC di Aosta, nel cinquantenario della loro esperienza, hanno voluto ricordare quanto condiviso mezzo secolo fa.
Rispetto a Paolo Monelli e Giuseppe Novello, autori del celebre "La guerra è bella ma scomoda", questi allievi erano dotati di minori capacità artistiche; ma non era da meno la nostalgia delle cose “belle” condivise – le loro, per fortuna, vissute in un contesto assai più favorevole.
Occasione per il cimento letterario è stato proprio il Raduno, organizzato nel Capoluogo della Vallée per il Cinquantesimo Anniversario del loro Corso presso la Scuola Militare Alpina. Nell’occasione fu ricordata l’avventura occorsa in Alto Adige durante un servizio cosiddetto di “ordine pubblico”, in un fortino a 2309 metri di altitudine.
Alle loro parole si sono poi aggiunte le immagini d’antan, ingiallite più del lecito, forse per essere state conservate troppo vicino al cuore...
Ecco come racconta la sua esperienza Piero Valperga, allora Sottotenente della 41, la Compagnia Fucilieri del Battaglione Aosta.
Vipiteno, un fortino, 25 Alpini, tre Carabinieri ed un cane nevrotico
di Piero Valperga
Vipiteno, un fortino, 25 Alpini, tre Carabinieri ed un cane nevrotico
Nel maggio 1968 il capitano Ravizza, comandante della 41 Compagnia del battaglione Aosta nella caserma Testafochi, mi annunciò - devo dire con un certo disagio - che due giorni dopo sarei dovuto partire per l’Alto Adige, accorpato alla 43 del capitano Varda.
Feci un salto a Torino per rifornirmi di abbigliamento adatto e il giorno dopo mi trovai sul treno per Vipiteno, insieme a un capitano che non conoscevo e ad una compagnia di Alpini che mi osservavano con curiosità. Non comprendevo (né mai lo compresi) il perché di questa decisione improvvisa, ma certo ero un poco frastornato e non molto contento. Iniziò in quel modo un’avventura che mise alla prova le mie forze e anche le mie capacità, e in un modo del tutto diverso da come avrei immaginato.
Il capitano aveva già predisposto gli uomini da distribuire nei vari Posti di Vigilanza, nell’ambito di un programma di antiterrorismo che all'epoca prevedeva tali servizi lungo il confine con l’Austria.
Appresi che il mio posto di vigilanza sarebbe stato la Cima degli avvoltoi: da quel momento i miei 25 Alpini si chiamarono “gli Avvoltoi”.
Fummo accolti nella caserma di Vipiteno, il cui comandante ci diede il benvenuto sostenendo che il battaglione Valchiesa, a parer suo, avrebbe dovuto chiamarsi Valcu...o.
Alla nostra Compagnia spettava il compito di liberare la strada dai mucchi di neve che impedivano di raggiungere il Passo del Santicolo, alto più di 2100 metri, dove si trovava la caserma base. Tale compito ci impegnò per diversi giorni, che trascorremmo andando sue giù per la strada. Incominciai ad affiatarmi con i miei Alpini che, al grido di “forza avvoltoi!”, buttavano a valle enormi blocchi di neve.
Finalmente ci piazzammo alla caserma base del Santicolo. I miei Alpini, a causa del notevole disagio di quell’alloggiamento, mi chiedevano preoccupati dove fosse il nostro fortino. E io rispondevo vagamente, perché ne sapevo quanto loro…
Il fortino
Il giorno 20 maggio ci incamminammo sul monte per trovare il nostro fortino, seguendo la stessa strada che avevamo liberato il giorno prima. A un certo punto comparve un'autentica montagna di neve, da cui spuntava il bordo di un tetto! Ci guardammo negli occhi esterrefatti, consci che quella sera avremmo dovuto dormire proprio lì dentro. Poco dopo sentimmo il rumore di un elicottero e in un paio di minuti atterrò il Maggiore, responsabile dei posti di vigilanza. Una volta compresa la situazione non commentò, ma si limitò a dirmi: “Tenente, giù con le recie, e lavorare!”. E sparì a fondovalle col suo elicottero.
Giù con le recie, giù con le recie… Che fare? Cominciammo a scavare nel punto che doveva corrispondere alla porta d'ingresso, di cui avevo la chiave. La scovammo due metri sotto. Aprii la porta e ci trovammo in un antro buio tutto gocciolante!
Il fortino era conquistato!
25 Alpini
Ecco i veri protagonisti della storia: gli Alpini, i miei Alpini.
Il primo ad emergere, e non solo in senso figurato, fu un certo Besana: testa rapata, lineamenti da contadino, aveva “la ragassa, alla quale ci scrivo ogni giorno, sa, sior tenente”. Era sempre allegro e lo chiamarono “la talpa umana”, perché si metteva a scavare nella neve, e in un istante spariva nel buco appena fatto, salvo poi riemergere tutto contento ad obbiettivo raggiunto.
Lo vedemmo all’opera quando, entrati nel fortino, gli diedi il compito di scavare i buchi in cui dovevano passare i tubi delle stufe.
A quel punto, il primo passo era compiuto. Prima che giungesse la sera iniziò una sarabanda di alpini e muli carichi di roba. Decisi di lasciare il comando al mio sergente AUC Turin (bravissimo, calmo, nonché grande fotografo dilettante) e scesi alla base per organizzare il trasporto in quota: un po’ di tutto, ma per prima cosa i letti, smontati in teli e tubi, da rimontare nelle camere gocciolanti, con le finestre ancora chiuse sotto la neve.
Risalendo verso la base con l’alpino Franciosa, di origine meridionale, lo scorsi a un certo punto seduto e ansimante sotto il peso di un letto. Mi disse: “Tenente, se dipendesse da me prenderei una ruspa e spianerei tutte le montagne!”. Però fingeva, perché era un duro… Quando faceva la sentinella, al nostro comparire aveva l’abitudine di mettersi a urlare “Alto là chi va là” e puntava il fucile. Una volta lo fece anche con me e fu mandato cordialmente affan… Un giorno lo vidi che puntava il binocolo verso la valle austriaca sotto di noi, in fondo alla quale si vedevano due laghetti. “Franciosa, che fai?” “Sto guardando due ragazze su una barca, mi sa che una dev’essere una bella f…”.
Dormimmo alla bell'e meglio, tutti ammassati in due camere; il giorno dopo iniziai l’organizzazione generale. Per prima cosa mi occupai dello sgombero della neve. Il sistema consisteva nello scavare enormi blocchi a partire dall’esterno, per poi rovesciarli a valle. Si misero tutti al lavoro e non ricordo particolari lamentele.
Dopo quattro giorni venne su il capitano e mi disse che, se avesse saputo che le condizioni erano quelle, non ci avrebbe mandati; ormai però la cosa era fatta e tutto sommato gli alpini erano più contenti di sistemarsi lassù, piuttosto che vivere nel caos della base.
Ed ecco quanto fu fatto nei primi quindici giorni.
Sgombero totale della neve, banderuole sui tubi che sporgevano dal tetto (ricavate da scatole di conserva e frammenti di legno); gabinetto esterno con fosse di decantazione, coperto da telo tenda; tre tavoli e un armadietto per la sala mensa, con chiodi comprati ed assi reperite qua e là; un sistema di carrucole per assicurare la chiusura delle porte, che sbattevano per il vento; un sistema per bloccare le persiane (perché sbattevano anch’esse); una postazione ex novo con tetto, finestrini e tutto il resto; un sistema per la manovra a distanza di una barra ad uso “passaggio a livello” per l’ingresso nel P.V.; un magazzino a scaffali, ricavati da stipiti di porte abbattute; abbattimento di tre muri di cemento armato per allargare la sala trasmissioni (nell'operazione rompemmo solo una mazza); quattro cestini per la carta ricavati da scatole di conserva. E poi: verniciatura color argento di tutti i tubi delle stufe, del canterano della nostra camera e dei cestini dei rifiuti. Sistemazione, in ogni camerata, di apposite assi di legno (materiale di ricupero) per appoggiarvi gli zaini; costruzione di uno scaffale in refettorio per appoggiarvi i piatti; acquisto di tre tovaglie di tela cerata per i tavoli del refettorio.
Occorre ricordare che i muri di cemento armato richiedevano l’uso di punzoni per poter fare i fori - ne consumammo due.
Mi sono sempre chiesto come si fossero organizzarti in quel fortino negli anni precedenti!
In questa baraonda di lavori, gli alpini diedero il meglio di sé. Voglio ricordarne alcuni, oltre ai già citati Besana e Franciosa.
Gioetto e Garau, artigiani silenziosi: manifestavo loro le nostre necessità, ed essi le soddisfacevano. Si inventarono le banderuole per evitare il fumo dentro al fortino e le carrucole per tener chiuse le porte; parteciparono a tutti i lavori che richiedevano inventiva, avendo come unici strumenti un coltello e un martello.
Corona, un gigante barbuto forte come una quercia e di poche parole: costruì tutti i tavoli e gli scaffali, partecipò da par suo allo sgombero neve, portando carichi impossibili sulle spalle dalla base fino a noi.
Cardellicchio, il re delle sentinelle, meridionale ciarliero: fu fotografato in mezzo alla neve, con la divisa segnata dal filo spinato che lo circondava quando montava di guardia. Una notte mise in allarme tutti, dicendo che aveva visto un’ombra nel buio. Mandai Turin con quattro alpini giù nella valle alla ricerca del terrorista, ma non trovarono nulla: scherzi della nebbia!
Il cuoco, non ricordo il nome, di professione era macellaio, riusciva a cucinare quelle poche cose che portava su il mulo e ce le portava con grazia e cortesia nella nostra camera (io dormivo con il sergente e col brigadiere, di cui parlerò dopo).
Filippetto, il capo guardia: alto, severo. Mi accusava di sviolinare troppo i superiori con i miei lavori: non aveva capito che per me, di complemento, non avevano alcuna importanza i loro apprezzamenti; lavoravo per una mia naturale passione di artigiano e perché era necessario. Spero che alla fine abbia capito.
Chiola, molto intelligente, dotato di un sano umorismo, teneva allegri tutti con le sue battute. Fu lui a compilare una lettera di ringraziamento ad un mio zio prete, che ci mandò 25 scatole di biscotti (una per ogni alpino) e che naturalmente Corona andò a prendere alla base per portale su.
Tre Carabinieri e un cane nevrotico
Dopo pochi giorni arrivarono, con il compito di affiancarci nel servizio di confine e controllare eventuali viandanti, il brigadiere Ruggero e altri due carabinieri, tutti meridionali e poco esperti di montagna. Ricordo che li accompagnai dalla base al fortino: la distanza non era molta, ma uno di loro non ce la faceva proprio. Portava con sé alcune carte in un busta: si fermò ansimante, gli chiesi se voleva darmela, me la porse ringraziandomi e riprese il cammino liberato da quei... 100 grammi! Gli alpini lo soprannominarono “Taormina” per le origini e gli intercalari (“minchia”, ecc.), che era solito esclamare nei momenti di fatica. Il terzo badava a una femmina di cane lupo, Diana: decisamente matta, difficile da tenere a freno e sempre abbaiante. Diventammo amici solo alla fine.
I carabinieri, oltre ad aiutarci volentieri nei lavori, ebbero una parte importante perché ogni tanto il brigadiere poteva scendere a valle e comprare alcune cose che ci servivano (chiodi, vernici, martello, punzone, tovaglie... persino i pomodori!). Svolgemmo pochi servizi di confine insieme a loro, perché dovevamo sistemare il nostro fortino. Insieme a loro incontrammo solo due pastori, durante un giro di pattuglia: il brigadiere domandò solennemente i loro documenti ed io notai che avvicinandosi aveva spostato la pistola sotto il fodero della giacca, ubbidendo a chissà quale rito!
Mia moglie ed io tornammo al fortino trentanove anni dopo, camminando per tre ore dal Colle Isarco: era tristemente abbandonato. Notammo i muri sbrecciati, le garitte diroccate, le porte divelte, i soffitti irti di stalattiti... Però la stufa della cucina era ancora là! Ci siamo seduti a mangiare, ma io nel silenzio vedevo ancora Besana con la sua pala, sentivo il vento, vedevo la neve, tanta ed incombente. E ancora Corona, con il carico di biscotti e tutti gli altri, compresa Diana. I laghetti di Franciosa erano sempre là e mi piace pensare che ancora oggi una signora di settant’anni vi faccia un giretto in barca.
PIERO VALPERGA
già Sottotenente delle Truppe Alpine
48° corso AUC in Aosta
Passò poco più di un mese e durante le escursioni estive, alle quali Piero partecipò con la sua Compagnia d’origine, la 41, incontrò il collega e compagno di Corso Paolo Zanzi, che svolgeva un compito analogo al suo nei ranghi della 42, “La Valanga”, comandata dall’indimenticabile e compianto Capitano Francesco Albarosa.
Paolo non era al corrente di quanto nel frattempo avesse combinato Piero, che era rimasto assente dalla Testafochi sia per un servizio di Ordine Pubblico, sia per un addestramento specialistico di Brigata, come rappresentante del Battaglione Aosta.
Il loro incontro fu caratterizzato più dalla sorpresa e dalla gioia dell’incontro, che dal racconto puntuale del loro “ruolino di marcia”.
Paolo si lamentò del cibo, scarso in tutti i sensi, durante i campi; Piero vantò invece la previdenza del suo comandante di Compagnia, che durante le marce faceva raccogliere a ciascun alpino un pezzo di legno, in modo da poter sempre disporre, alla sera, di un bel fuoco per cucinare e attorno al quale ritemprarsi.
Le escursioni estive, i “Campi”, terminarono con grande e giusta… soddisfazione: quanto accadde immediatamente dopo ce lo racconta Paolo in questo brano, già pubblicato su In Punta di Vibram nel 2004.
Una punizione memorabile
di Paolo Zanzi
Agosto, nostro tredicesimo mese di naja, era alle porte; facevamo tutti programmi come se quella seconda estate della nostra vita “donata alla patria” dovessimo davvero passarla “praticamente a casa”. Soprattutto i liguri non stavano più nella pelle, con la loro smania “d’o Mà”; però anche gli altri, valdostani, piemontesi e “lombardi dell’ovest” come me, programmavano licenze, permessi e fughe per raggiungere o - nel peggiore dei casi - farsi raggiungere dalle morose ad Aosta.
Come si dice, “avevamo fatto i conti senza l’oste”, che in quel frangente non era il mitico Marcel (che noi non chiamavamo ancora “Papà”), ma piuttosto l’Alto Adige e l’O.P., il servizio di ordine pubblico!
Fu così che il Battaglione Aosta, appena ricongiunto ed auto-festeggiato, si ritrovò al gran completo, in un torrido pomeriggio aostano di fine luglio, a battere il passo per le vie del centro, armi e bagagli al seguito. Destinazione: Vipiteno.
“Addio Aldina, botticelliana fanciulla di Pollein, pensiero fisso prima di addormentarmi nel sacco a pelo durante i campi: resta ad Aosta e portati bene. - No no, la macchina preferisco lasciarla all’autosilo. No, non te la posso prestare per le ferie, anche se vai piano, devo ancora finire di pagarla, cazzarola!”.
Il viaggio con la tradotta durò un numero esagerato di ore e quando, ancora sfatto per non avere praticamente dormito da più giorni, mi sentii dire che saremmo rimasti per otto settimane a quota 2309, nel P.V. di “Cima Avvoltoi”, direttamente sul confine con l’Austria, mi venne quasi un conato di vomito.
A volte, nelle giornate nuvolose, Cima Avvoltoi veniva sommersa dalla nebbia e, anche se non sempre arrivavano pioggia o nevischio, tutta la nostra piccola “Fortezza Bastiani” si ritrovava ricoperta da uno strato di fredda rugiada.
Cercavo di non punire con troppa severità le infrazioni che, fatalmente, si verificavano. Avevo piazzato una “tabella puniti” nel localino cosiddetto “mensa”, che serviva anche da spaccio, soggiorno e – alla sera – da ritrovo per giocare a carte, riservato a quelli in “libera uscita”. I nomi registrati erano pochi e le “righe” (da scontare al rientro) alquanto limitate.
Perché infierire, aggiungendo una punizione accessoria a quella già toccataci e che aveva il nome e le sinistre fattezze di “Cima degli Avvoltoi”?
Per rallegrare il dimesso soggiorno, avevamo inventato un torneo, manco a dirlo, di… scopone: le coppie che perdevano la manche giornaliera versavano un piccolo obolo alla “Cagnotta” che, insieme ad un modesto ricarico sui generi dello spaccio, alimentava un vaso di vetro, simile a quello delle caramelle delle drogherie, in cui finivano, dopo essere state cambiate in pezzi cartacei, tutte le monete derivanti dal gioco o dal surplus delle consumazioni.
Un brutto giorno, anzi, una bruttissima mattina, il caporale Cagna, cuoco e spaccista, urlando come un pazzo per il corridoio del P.V. si precipitò nel mio alloggio: “Sciur Tenènt, n’aj pi la Cagnotta, sciur Tenènt ’l vas l’è voj, sciur Tenèn… o mama o mama, sciur Ten…”.
“Cazzo Cagna, calmati! - gli dissi. - Che cosa stai bofonchiando? Cos’è successo, s’è fatto male qualcuno?”
Il poveretto, quando riuscì finalmente a rientrare in sé, spiegò come, alzatosi normalmente per preparare il caffè, ancora mezzo assonnato, si fosse accorto che il vaso contenente il piccolo tesoro non era al suo posto ma si trovava, vuoto, nella stanzetta in cui dormiva l’addetto alle trasmissioni (il quale, ovviamente, non ne sapeva nulla).
La Cagnotta apparteneva a tutti e si era deciso che quei soldi avrebbero finanziato una cena in grande stile, a base di leccornie e adeguate libagioni, non appena fossimo rientrati a valle.
La sua sparizione, ad opera di “uno di noi” che non fu mai “ufficialmente” individuato, sarebbe potuta essere un duro colpo per il morale dell’intero gruppo.
Il fatto, ovviamente, toccò soprattutto i carabinieri che, forse per deformazione professionale, proposero di fare annusare il vaso vuoto al loro pastore tedesco, e di lasciare alcune banconote da mille lire in bella vista, per qualche mezza giornata, dopo averne registrato i numeri di serie.
Entrambe le “operazioni” però si risolsero in un fiasco clamoroso.
Diana non pareva particolarmente addestrata né dotata per quella mansione: ogni qual volta uno degli appuntati le strofinava il vaso sul muso, e le diceva: ”Vai Diana, vai bella, dai!”, lei, effettuate un paio di rapidissime giravolte, partiva in una direzione sempre diversa, per poi tornare indietro, scodinzolando, al solo scopo di riprendere il gioco.
Le mille lire rimasero intonse e ridicolmente “in bella vista”, per qualche mezza giornata, dove il brigadiere Ruggero le aveva lasciate.
A dire il vero, tutti sospettavano chi potesse essere l’autore della sparizione della Cagnotta: però era anche nota la misera condizione familiare dell’interessato e si sapeva di qualche suo guaio già passato con la giustizia, prima del servizio militare.
Decidemmo così di non infierire: ciascuno mise un po’ di soldi nel vaso vuoto, un robusto contributo fu dato da me e da Ruggero il quale, oltretutto, si incaricò per il prosieguo di custodire la cagnotta e di rendere conto giornalmente del suo progredire.
A farci dimenticare definitivamente l’accaduto, giunse, nel cuore di una notte agostana, il primo allarme NATO.
Forse non fu fatto apposta, ma dopo tante giornate di cielo color pervinca, con milioni di stelle da ammirare non appena rabbuiava, quella notte in quota avemmo una vera e propria tormenta, che comportò anche un brusco abbassamento della temperatura e molti fiocchi di neve.
Ricevemmo l’allarme via radio e subito, in base alle istruzioni lasciatemi dal Capitano Ispettore, distribuii le munizioni e impartii gli ordini del caso.
Per la sua struttura e per la frenetica attività derivante dall’allarme, il P.V. diventò improvvisamente una specie di sommergibile in immersione rapida: alpini che gridavano o ripetevano comandi, carabinieri che facevano altrettanto cercando di coordinarli, uomini che si incrociavano strisciando sui muri madidi dello stretto corridoio che attraversava l’intera costruzione.
Asta e Alberigo si offrirono subito volontari per occupare la garitta di emergenza.
Uscii di pattuglia lungo il perimetro del P.V. e ne comandai un’altra lungo gli ultimi tornanti della carrabile, giusto per intercettare e prevenire eventuali ispezioni.
Ruotando la fotoelettrica, battevamo i punti della montagna dai quali avrebbe potuto arrivare qualche minaccia; una delle MG di reparto era stata piazzata sul tetto del P.V. e l’altra, in posizione sovrastante, seguiva gli spostamenti della fotoelettrica, cercando di attuare un incrocio di fuoco sull’obiettivo che veniva di volta in volta illuminato.
Dopo circa tre quarti d’ora, in assenza di “fatti di rilievo”, tranne qualche bengala sparato dai P.V. vicini per illuminare le aree adiacenti, ci pervenne il “cessato allarme”. Asta e Alberigo chiesero di poter continuare ugualmente a presidiare la garitta d’emergenza sino all’alba, in modo da ottenere, comunque, una “copertura” efficace.
Tornammo a riposare, anche se con “un occhio solo” (almeno io e il brigadiere Ruggero, proprio come gli eroi dei film western, che dormono all’addiaccio vicino al fuoco).
Il risveglio fu una sorpresa fantastica: il “gabinetto in quota” era coperto da quasi cinque centimetri di neve e tutt’intorno, dalle creste più vicine alle cime più distanti, si poteva ammirare una fantastica infarinata, che metteva allegria e rendeva l’aria ancor più sottile e frizzante del solito.
Ferragosto passò così, tra ispezioni improvvise e allarmi di vario genere e grado. Ciascuno contribuì al meglio, per quel che lo riguardava, a farci trovare sempre “allineati e coperti”.
Non ne sono sicuro, ma mi pare che dell’invasione di Praga fummo informati da un’edizione straordinaria del Telegiornale, tramite il piccolo televisore che mi ero fatto procurare dal maresciallo Saccani.
Erano le sei del pomeriggio del 21 Agosto e il Telegiornale interruppe le “20 domande brucianti” di uno spettacolo di Cino Tortorella, Chissà chi lo sa?, presentato dall’indimenticabile Febo Conti..
Mostravano immagini di Piazza San Venceslao assediata da enormi carri di acciaio, sui quali i praghesi stendevano le loro bandiere nazionali e posavano mazzi di fiori, nell’intento di ricordare la loro amicizia agli invasori o cercando, almeno, di “sdrammatizzare”.
Guccini, due anni dopo, nella sua “Primavera di Praga – Prazské Jaro”, purtroppo avrebbe cantato:
“Di antichi fasti la piazza vestita, grigia guardava la nuova sua vita.
Come ogni giorno la notte arrivava, frasi consuete sui muri di Praga.
Ma poi la piazza fermò la sua vita e breve ebbe un grido la folla smarrita
Quando la fiamma violenta ed atroce spezzò gridando ogni suono di voce...
Son come falchi quei carri appostati, corron parole sui visi arrossati.
Corre il dolore bruciando ogni strada e lancia grida ogni muro di Praga.
Quando la piazza fermò la sua vita sudava sangue la folla ferita
Quando la fiamma col suo fumo nero lasciò la terra e si alzò verso il cielo,
Quando ciascuno ebbe tinta la mano, quando quel fumo si sparse lontano…”
Lontano.
Quel fumo, come un cazzotto nello stomaco, era arrivato anche a Cima Avvoltoi. Vedevamo sempre più vicina la fine della nostra permanenza sopra il Brennero, e ci sentivamo un fragile baluardo di fronte all’ipotetico “pericolo rosso”: forse nel nostro DNA era ancora predominante l’avversione per i “pacificati” austriaci.
La loro presenza, insieme a quella degli spiriti dei nostri avi, ci forniva quotidianamente una dose di adrenalina sufficiente non solo a non morire di inedia, ma anche a motivarci.
Al resto provvedevano gli allarmi, ormai quasi quotidiani, o le ispezioni improvvise, o i collegamenti radio con questo o quell’altro mezzo:
“Rumba, Rumba, Rumba… qui Derma uno, passo”: potevamo anche assistere al miracolo di sentirci rispondere da un piper del R.A.L. (Raggruppamento Aerei Leggeri) che sorvolava la valle esattamente nel momento previsto dalle istruzioni ricevute, facendo gracchiare l’altoparlante di quella radio, che assomigliava piuttosto ad una tanica di scorta per la benzina delle A.R.
“Scendiamo, si torna!”
L’ordine arrivò improvviso dopo che, per tutta la settimana precedente, si erano incrociate ed erano rimbalzate le più fantasiose illazioni. Oramai non credevamo più che la nostra permanenza potesse finire: ci eravamo rassegnati a mettere un giorno dietro l’altro, senza lasciarci impressionare dallo scorrere delle settimane.
Qualcuno diceva addirittura che, data la situazione internazionale, non fosse più sicuro neppure il congedo, a metà ottobre.
Mente percorrevano a ritroso il cammino effettuato molte settimane prima, erano adesso “i miei ragazzi” a sfottere chi saliva ansimante e con la faccia sconsolata, sempre più persa man mano che realizzava dove s’era andato a infilare.
Erano tutti molto giovani, compreso il “nipote” Sergente A.U.C. al quale passai frettolosamente le consegne (senza che lui si permettesse di chiedermi ulteriori delucidazioni).
Erano lì “per chiudere bottega”: fortunatamente sarebbero rimasti solo qualche giorno, poi il Capitano dei Servizi avrebbe fatto il suo ultimo giro dei P.V., per verificare che tutto fosse fatto “come Dio comanda”.
Infine, avrebbe cominciato a nevicare quasi tutti i giorni, sempre di più, fino a quando Cima Avvoltoi non si sarebbe confusa con tutte le altre cime imbiancate della lunga e meravigliosa catena alpina.
*
Tornato ad Aosta, dopo più di tre mesi di assenza, scoprii di essere diventato una sorta di Paperon de’ Paperoni: avevo messo da parte una piccola fortuna (anche perché impossibilitato a spendere). Seppi che il mio stipendio era più che raddoppiato, per effetto di tutte le indennità ed ammennicoli vari che i più anziani in SPE ci aiutarono ad inserire nei fogli giustificativi di “missione”.
Non ricordo esattamente quanti giorni mancassero alla fin del Servizio Militare, in ogni caso ne era rimasta una manciata: giusto il tempo per farmi tutti i Picchetti che l’attività fuori sede mi aveva fino allora risparmiato.
*
A chi venne l’idea della “Cerimonia dei Congedanti”? Chi fu quel pazzo che escogitò la peggiore “trappola” di tutta la mia carriera militare?
Non lo ricordo, assolutamente. Fatto sta che una sera di metà ottobre, forse dopo una cena con i nipoti freschi di nomina del 50° A.U.C., da poco arrivati al Battaglione, e dopo le regolamentari, reiterate libagioni, mi trovai a partecipare a quella strana “performance”.
Ricordo che avevamo preso le sciabole e che il Cerimoniere ci aveva introdotti nel cortile buio e vuoto della Testafochi. Allineati in fila indiana, i quattro congedanti del 48° Corso A.U.C., si trovarono a marciare sotto la luce d’un riflettore che tagliava diagonalmente l’area tra il pennone e il corpo di guardia.
La bandiera era stata issata nottetempo? Quando iniziò il “Silenzio fuori ordinanza”? Cosa gridammo dopo il presentat-arm con le sciabole?
Proprio non mi torna nulla alla mente.
Mi sono rimasti comunque, indelebili, l’immagine e il ricordo del nostro goffo incespicare sui cubetti di porfido sconnessi del piazzale, del passo che non riuscivamo a tenere e a battere all’unisono, della luce invadente di quel dannato faro e dell’enorme groppo alla gola che mi aveva preso e pareva riuscisse a soffocarmi.
Sull’ultima nota della tromba ci accorgemmo che il cortile non era proprio deserto: dall’alto, dalle camerate delle nostre compagnie di appartenenza, si levarono grida, applausi, fischi, proprio come capita a certi concerti.
Tutta la Testafochi, per qualche interminabile secondo, fu in festa.
Dopo tanti anni, a Paolo e a Piero, finalmente ritrovatisi nella comune Caserma, è rimasto il dubbio che quella scadente performance, sotto gli occhi di tutto il Battaglione Aosta così eccentricamente schierato, sia stata la vera causa della punizione memorabile che, il giorno dopo, fu loro comminata: il Congedo.
PAOLO ZANZI
già Sottotenente delle Truppe Alpine
48° corso AUC in Aosta
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