Alpini e Alpinisti
Quando giunsi ad Aosta, a metà luglio del ’67, avevo già compiuto 26 anni, un’età in cui, per la maggioranza dei miei coetanei, il servizio militare era solo un ricordo. Avevo approfittato di tutti i rinvii possibili per ragioni di studio, anche perché speravo che venisse prima o poi riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza, del quale avrei molto probabilmente approfittato. Ero quindi già laureato e con un incarico d’insegnamento nella scuola secondaria, che fu ovviamente abbandonato al momento della chiamata. Mi sono sempre chiesto come avessi fatto a superare le prove d’ammissione alla Smalp, senza mai trovare risposte soddisfacenti. Il mio fisico era più da artigliere che da alpino; le mie attitudini erano più orientate al lavoro e all’impegno sociale che all’Esercito, pur di difesa; i miei trascorsi scolastici non erano particolarmente brillanti e le materie da me apprese erano sicuramente di scarso interesse per le gerarchie militari. In questo quadro coltivai l’illusione, o la fantasia, che nell’accettazione avessero influito i miei trascorsi alpinistici, certificati dalla sezione del CAI alla quale ero da tempo iscritto, che avevo fatto presenti nella domanda d’ammissione al corso AUC. Non si trattava di nulla d’eccezionale, ma a me pareva un capitolo importante della mia vita. Mi consideravo un buon escursionista e un organizzatore affidabile; mi piaceva molto arrampicare, anche se non vantavo nessuna “prima” ed evitavo accuratamente di cimentarmi in imprese che superassero il quarto grado. Avevo affrontato anche le “Occidentali” (come a Schio venivano chiamate le montagne della Val d’Aosta), e i ghiacciai del Bianco e del Rosa mi avevano letteralmente appassionato. Ma, anche qui, si trattava di esperienze perfettamente normali. Nello spirito, comunque, mi sentivo davvero “alpinista” e così mi consideravano anche amici e familiari. Da quel luglio del ’67 avrei dovuto sentirmi anche “alpino”; eppure questa integrazione non mi è mai perfettamente riuscita, forse a causa di un episodio accadutomi proprio durante la naja, che ancora oggi ricordo. Alla Smalp ero stato assegnato agli “esploratori”, e nell’estate del 1968 ne comandavo un intero plotone. Durante il campo estivo avevamo il compito di scortare le ascensioni più impegnative; ci chiamavano “squadra di soccorso”, ma avevamo compiti sostanzialmente preventivi. L’episodio si svolse sul Monte Popera, in Cadore. La meta era Cima Bagni: avevamo attrezzato tramite corde fisse un piccolo salto che si trovava all’inizio della Valle Giralba, per consentire agli Alpini (che avevano le armi appresso) di raggiungere la base della montagna, da dove avremmo dovuto salire in cordata. Il tempo era brutto: nebbia in valle, pioggerellina più in alto e neve in prossimità della cima da salire – una neve estiva, che attaccava velocemente poggiandosi sulle roccette e rendeva tutto uguale ed omogeneo. Oltre al disturbo provocato dalla nevicata, vi era poi l’obiettiva difficoltà di scegliere gli appigli e gli appoggi, tale per cui anche un movimento facile poteva diventare complicato e pericoloso, specialmente per chi non aveva esperienza ed era privo di equipaggiamento adeguato, situazione nella quale si ritrovava la maggioranza della compagnia. Quel giorno era prevista la partecipazione del comandante di battaglione: condividendo la fatica ed il gusto dell’arrampicata, il tenente colonnello intendeva valorizzare l’impegno dei suoi Alpini, rafforzando nel contempo la propria autorità e il proprio carisma. Una volta superato il salto attrezzato, mentre la neve continuava a scendere, ci fermammo a valutare la situazione, cercando d’intuire la futura evoluzione meteorologica. Ritenevo mio dovere segnalare i rischi che avremmo incontrato, affrontando l’ascensione in quel contesto. Dopo una breve discussione, proposi di rinunciare e di ripiegare: il freddo, l’inesperienza, la neve, l’equipaggiamento, le armi, erano tutti elementi che mi preoccupavano, inducendomi a voler evitare agli Alpini - alcuni dei quali affrontavano per la prima volta un’esperienza del genere - un episodio che avrebbero ricordato con sofferenza e forse un po’ di rabbia. Mi ero trovato molte volte in situazioni analoghe e altrettante avevo rinunciato, proprio per non sfidare la sorte. Così mi avevano insegnato in CAI e in tal modo avevo imparato ad amare e rispettare la montagna, riuscendo anche a farla amare (almeno credo) a quanti condividevano con me questa passione. Per questo mi sentivo alpinista. La mia proposta però non fu accolta. Qui non si trattava di sentirsi alpinisti: bisognava essere Alpini. «Se fossimo in guerra non staremmo qui a discutere» affermò con decisione il colonnello. E a nulla valse la mia opposizione, fondata sulla più elementare constatazione che non eravamo in guerra, per cui mi pensavo autorizzato a decidere in un contesto di pace. Nonostante la differenza di grado, ero infatti convinto che il giudizio di merito dovesse imporsi sulla semplice disciplina. Arrivammo ad un compromesso accettabile: avrebbero proseguito verso la vetta solo tre cordate rappresentative e il tenente colonnello sarebbe venuto con noi, per dare una testimonianza agli Alpini. Partimmo, sperimentando la reale difficoltà di scegliere gli appigli, a causa della neve che continuava a cadere. Ma, al secondo “tiro di corda”, fu proprio il comandante a parlare di ripiegamento: senza particolare ostentazione, pur ammettendo che in quelle situazioni di sicurezza avremmo potuto anche continuare, concordammo il rientro alla base. «Possiamo sempre dire che abbiamo provato e che soltanto la valutazione del rischio ci ha suggerito questa scelta», dichiarò il comandante, fattosi più ragionevole, ed io fui pienamente d’accordo. Ritornammo così sui nostri passi, per ricongiungerci alla compagnia, che ci attendeva alla base della montagna, riparata alla meno peggio sotto sporgenze e spioventi. Alpinisti o Alpini, quindi? Quel giorno pensai di aver capito. Non è soltanto un fucile in spalla che fa la differenza, né una divisa, né le stellette. È il rapporto con la montagna ad essere diverso. L’alpino è un soldato che obbedisce ai suoi comandanti e la montagna è un terreno come un altro sul quale si muove, ma per raggiungere altri scopi, reali o addestrativi che siano. L’alpinista stabilisce invece una relazione totalizzante con la montagna, la riconosce, la ama, le appartiene quasi, senza secondi scopi. Non la sfida quand’è imbronciata; non si arrabbia quando lo respinge; non insiste quando tenta di difendersi o di nascondersi. Tutti pensieri e modi di essere, che il più delle volte l’alpino non può permettersi di apprezzare.
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