25
gennaio a Nikitowka "Ma
però leva su, vinci l'ambascia con l'animo che vince ogni battaglia se,
col suo grave pondo, non s'accascia"... Assurdamente da 40 ore questi versi
del Purgatorio mi tornavano alla mente riaffiorando tra mille pensieri assolutamente
diversi quali, "Come farò adesso che la Simpamina è finita?...
oppure, dove troverò da rifornire il parabellum? e simili". Mi ero
accucciato in un angolo dello stanzone illuminato da due lumini ad olio che gli
Alpini erano riusciti a racimolare chissà dove. Faceva caldo nonostante
mi fossi tolto il pellicciotto ed il pesante passamontagna, già bianco,
ed ora di colore indefinibile. Mi ero tolto le scarpe da sci e ne avevo fatto
un sostegno per appoggiarvi la borsa delle carte sulle quali tentavo di raccogliere
i dati delle perdite subite a Tschuprinin e a Romankowo; e intanto osservavo le
pareti sbiancatea gesso, le tre finestre che inquadravano il buio della notte
serena e gelata. Venne Noseda della 107a con un coperchio di gavetta pieno di
un ragù fumante, ma senza pomodoro né sale. "Mangi anche Lei
Signor Maggiore, noi abbiamo già mangiato, le «kartosche» (patate)
ce le ha date una donna". "Grazie, dammi un po' d'acqua se ne avete...
Ma che cosa viene a fare quel ragazzino che ogni cinque minuti è qui?",
chiesi a Colombo che si era sdraiato vicino a me per ricordarmi gli uomini della
Compagnia Comando.
Della
Nave, l'attendente di Merlini, arrivò con una borraccia di acqua e una
ruga che gli tagliava la fronte. Bevvi avidamente e restituii la borraccia ringraziando.
Merlini dormiva già con la pelliccia buttata sulle gambe. "Signor
Maggiore, lo sa che di là ci sono i russi"? "Lo credo, siamo
in Russia". "No, ma io dicevo che di là ci sono dei soldati russi,
in cucina, e non sono sbandati perché hanno le armi...".
Mi
alzai, cautamente attraversai lo stanzone scavalcando i corpi degli Alpini addormentati,
i moschetti, i fucili abbandonati a terra, le pozzanghere d'acqua che si andavano
allargando attorno alle scarpe dalle quali si staccava la neve rappresa dal gelo,
e giunsi alla porta che dava in una specie di androncino. Sulla sinistra, non
del tutto chiusa causa lo strato di neve gelata della soglia, la porta che dava
sui tre scalini che arrivavano alla strada; sulla destra una porta chiusa dalla
quale venivano voci e risate inequivocabilmente russe. Spinsi la porta e mi trovai
in cucina. Vicini al fornello, seduti su rustiche seggiole di legno o sui ripiani
della stufa, erano una dozzina di soldati russi, senza cappotto né tute
mimetiche. I fucili erano lì a portata di mano, ciascuno aveva indosso
le gibernedi tela che stringevano i giubbotti imbottiti alla vita, i goffi pantaloni
trapunti come i giubbotti sparivano dentro i valenki grigi... Mi guardarono senza
fare un gesto, pure tutti avevano certamente visto che non portavo armi, che ero
senza scarpe e che non mi aspettavo certamente quell'incontro... Guardai tutti
in faccia. Le ragazze e le donne tacevano... Il ragazzino sussurrava qualche cosa
a uno dei soldati che mi guardava con un sorriso tra il compassionevole e l'ironico.
Dissi a voce chiare "Drastvice", quasi in coro mi risposero "Drastvice".
Le donne tacevano assorte. Un soldato disse, accennando alla porta, "Kòlodno"
(freddo). Risposi alzando le spalle "jest jimà" (è inverno).
Si udì qualche risatina...
"Spacòine
nac" dissi, e mi volsi per uscire, "Spacòine Nac" mi dissero
in coro soldati e donne mentre ritornavo nel buio dell'androncino, dove andai
a sbattere contro Colombo ed altre ombre nel buio. Si spalancò la porta
dello stanzone e, in silenzio, rientrammo nel tanfo. Della Nave stava scuotendo
Merlini per svegliarlo.
"Lascialo
dormire", dissi. Guardai l'orologio: le nove e mezza, da cinque ore era buio.
La luna sarebbe sorta verso le tre. Potevamo ancora riposare cinque ore e mezza.
Colombo organizzò un servizio di guardia ai russi (i russi avevano già
il loro ragazzino a sorvegliare noi) e pensai che, tutto sommato, una buona dormita
mi avrebbe servito più della simpamina. Calcolai che quella sarebbe stata
la prima notte in cui avrei potuto sdraiarmi dopo Krarzowka. Tre notti e quattro
giorni senza far altro che camminare e combattere... Cinque ore di sonno ci volevano
assolutamente.
Pensai
a quella donnetta di Romankowo che, chissà perché, mi aveva detto
di non andare a Waluiki, che avrei trovato i "paruski Kamarad", e mi
addormentai.
Alle tre del mattino, in perfetto silenzio, uscimmo
tutti dalle finestre. Fuori 47 sotto zero. La notte era ghiaccio purissimo e la
luna cominciava a rischiarare l'orizzonte a est. A ponente il cielo rosseggiava
d'incendi e la voce del cannone e dei mortai indicava, chiarissima, la direzione
da prendere. 26 gennaio. Di lì a poco saremmo giunti a Nikolajewka. Guglielmo
Fabrocini Torna all'indice
delle letture Torna all'indice di In punta di Vibram |  |